I videogiochi hanno sempre parlato di diversità (e ora lo fanno meglio)

Ci aggrappiamo all’Arte perché abbiamo bisogno di credere in qualcosa più grande di noi, qualcosa da imitare per essere migliori. Se i videogiochi sono arte – se li riteniamo davvero tali, e non è una frase fatta per ammantarli di una dignità che talvolta non riusciamo nemmeno a vedere – allora non possono fare eccezione. 

diversità videogiochi

Parlavano di diversità già le fiabe popolari, prima ancora che venissero raccolte nei Racconti di Mamma Oca di Charles Perrault o nelle antologie dei fratelli Grimm. Ogni epoca ha le sue battaglie sociali e i suoi media di riferimento, ma il diverso in tutte le sue forme ci accompagna da sempre. Forse perché non siamo mai riusciti ad accettarlo all’unanimità, forse perché alcuni di noi viaggiano a velocità diverse, su frequenze empatiche diverse, e allora l’unica risposta che ci resta di fronte all’insensibilità è appellarci all’Arte e al suo potere nella speranza che qualcosa alla fine resti. I videogiochi ci hanno sempre provato. Agli inizi in senso lato, perché l’E.T. simbolo della crisi di Atari dell’83 non parlava direttamente di diversità, ma era un’opera derivata da una pellicola che abbracciava il tema  col solito approccio spielberghiano. Poi in modo goffo, vuoi per gli intenti, vuoi per una certa immaturità di un’industria che ancora non poteva capire che di un personaggio come Lara Croft, al pubblico, sarebbe rimasta soprattutto l’estetica a scapito della sua caratterizzazione. E infine in modo via via più profondo – no, anzi, consapevole. Perché appunto, ogni epoca ha le sue battaglie sociali e i suoi media di riferimento. E il videogioco di oggi contiene quello di ieri, ma è anche capace di andare oltre, di percorrere strade non battute quando le redini sono nelle mani di autori che hanno qualcosa da dire e la giusta proprietà di linguaggio per farlo.

IT’S A ME, TROPOS

A cavallo degli anni ‘80 e ’90 la scena era molto diversa da quella di oggi. Console e PC erano due mondi paralleli, con audience e rilevanza diverse. E con un diverso filtro in accesso, perché per uscire su NES era necessario riuscire a ottenere da Nintendo il suo personale Seal of Approval, onde evitare il rilascio di quel junk software che poi aveva portato al già citato collasso dell’83. Su PC (sulle varie incarnazioni di PC) lo scoglio era tecnologico, e una volta superato quello semmai il problema era di farsi scoprire dai videogiocatori. La mancanza di un controllo centralizzato chiaramente favoriva più sperimentazione e diversità. Anche la diversità propriamente detta, visto che mentre su Mac OS uscivano opere dichiaratamente LGBT come Caper in the Castro e GayBlade, sul Family Computer della Grande N il tentativo più deciso era Metroid.

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L’evoluzione delle Zero Suit di Samus attraverso la serie.

Metroid è spesso considerato il primo videogioco mainstream con una protagonista femminile. È tecnicamente vero (quantomeno nel mercato home console, le sale arcade avevano già visto Ms. Pac-Man), perché Samus è ovviamente donna e il videogioco medio dell’epoca proponeva personaggi maschili. Ma va dato un contesto a questa diversità: il sesso di Samus, nel 1986, veniva mostrato a schermo solo completando il gioco in meno di cinque ore. Era a tutti gli effetti inteso come premio del giocatore, e non a caso via via che il tempo di completamento si abbassa Samus è sempre meno vestita, fino a comparire a schermo in bikini. È un primo passo, a cui Nintendo darà seguito a momenti alternati, quasi a prendere atto dei cambiamenti del mondo intorno a loro senza clamore.

SUPER PRINCESS PEACH SOVVERTE I RUOLI: STAVOLTA È MARIO IL DAMIGELLO IN PERICOLO

Nel 2005 su Nintendo DS usciva Super Princess Peach, primo gioco della serie Super Mario a sovvertire i ruoli e a mettere la Principessa Toadstool sotto il controllo del giocatore e Mario negli inediti panni del damigello in pericolo. A riguardare il gioco con l’occhio di oggi alcune scelte sembrano un po’ grottesche, come l’idea di legare i poteri di Peach alle sue varie emozioni. Ma ogni opera va analizzata all’interno del suo contesto, e se con Super Mario Odyssey siamo arrivati finalmente a vedere finalmente smontato il tropo della damsel in distress a schermo è anche grazie a iniziative di questo tipo. Sì, nel titolo Switch del 2017 la trama è per l’ennesima volta legata al rapimento di Peach da parte di Bowser, ma arrivati alla fine il tutto non si chiude col solito bacio tra il fu-idraulico e la Principessa del Regno dei Funghi, ma con una Peach che rifiuta sia la proposta di matrimonio di Mario che quella di Bowser, reclamando la sua indipendenza. È probabilmente il massimo che si può ottenere, considerando il contesto PEGI-7 della serie e l’attitudine family friendly che da sempre ha contraddistinto Nintendo, con l’unica mezza eccezione dell’epoca GameCube. Ma va ricordato che pochi anni prima, nel 2014, Nintendo si era trovata a dover chiedere scusa per l’assenza di matrimoni omosessuali in Tomodachi Life per 3DS.

AVANT GARDE

Il punto qui forse è che Nintendo è una software house giapponese dal punto di vista fiscale, ma molto meno da quello artistico. Sì, nella lineup titoli più sfacciatamente nipponici non mancano, ma il core della produzione, i grandi nomi che poi sono quelli che staccano i biglietti e vendono le console, strizzano molto l’occhio a Occidente. Mario in origine era un idraulico di Brooklyn, e anche The Legend of Zelda a ben vedere va a riprendere tanto del nostro immaginario fantasy, mostrando gli echi evidenti dell’importanza che ha avuto Ultima nel Sol Levante. Se c’è una differenza tra la scena orientale e quella occidentale nel game dev è che per alcuni degli artigiani giapponesi sembra essere più naturale un approccio più in rottura con lo status quo, quasi punk in un certo senso. È naturale che in un contesto del genere sia più semplice trovare esempi di diversità nel videogioco anche andando più indietro nel tempo.

Final Fantasy VII sfiora la tematica mostrando un lato molto vulnerabile di Cloud.

I DUE PROTAGONISTI DI ICO SONO ENTRAMBI DIVERSI, ANCHE TRA LORO, MA RIESCONO A FARE FRONTE COMUNE

L’anello di congiunzione tra i due mondi è probabilmente da ricercare in Fumito Ueda. Ico attinge da quel substrato culturale fiabesco citato in apertura, e non è casuale che i suoi due protagonisti incarnino un’idea di diverso molto simile a quella che si potrebbe ritrovare nelle raccolte dei Grimm. Ico – il personaggio, non l’opera – è uno di quei bambini con le corna che la tradizione popolare vuole essere portatori di sventura. Fa parte degli ultimi e proprio per questo viene offerto in sacrificio. Yorda quasi allo stesso modo è costretta alla solitudine e condannata ad un destino già scritto. È una ragazza fragile, che però non si limita a sovrapporsi al tropo della principessa da salvare e diventa parte attiva dell’esperienza: Ico è una storia che parla di come due ragazzi così diversi, anche tra loro, riescano a fare fronte comune pur parlando due lingue diverse, che nemmeno il giocatore durante il suo primo playthrough può capire. Ma se in Ueda alla fin fine il punto di rottura è più ludico che nella rappresentazione, altri due autori giapponesi in particolare costruiranno la loro opera – ma anche il loro personaggio pubblico – attorno all’idea di freak.

TARO DA MORIRE

Goichi Suda alle nostre latitudini diventa degno di culto con Killer7, per poi esplodere definitivamente dopo No More Heroes e tutta quella serie di suoi emuli apocrifi attribuiti a lui dal pubblico dove in realtà nominalmente fungeva solo da produttore esecutivo. In patria però la storia è diversa, e inizia molto prima. Addirittura su SNES – o meglio, Super Famicom – dove nel 1994 Super Fire Pro Wrestling Special crea scandalo. Non è la solita polemica sulla violenza nei videogiochi che dall’altra parte del mondo è molto in voga in quegli anni, dopo l’uscita di Doom e il successo di Mortal Kombat: in Super Fire Pro Wrestling Special il protagonista alla fine dell’esperienza decide di suicidarsi. È riuscito a diventare il World Champion, ma lungo la strada ha perso tutto. Il campione in carica ha ucciso il suo manager, la sua ragazza l’ha lasciato e ha indirettamente causato la morte del suo migliore amico sul ring. Non gli resta nessun motivo per vivere, e allora tanto vale morire, perché quella cintura non è di nessun conforto. È uno dei primi casi pop in cui la depressione entra nel videogioco senza nulla a smorzarne il colpo.

L’ATTITUDINE PUNK DIVENTA UN TRATTO DISTINTIVO DI SUDA51, E I PERSONAGGI DI NO MORE HEROES NE SONO UNA PERFETTA RAPPRESENTAZIONE

Quest’attitudine punk diventa un tratto distintivo di Suda51, per cui è quasi naturale che sposando quello che è il terreno più fertile per la diversità questa finisca per emergere nell’opera del designer. Il già citato No More Heroes è forse il gioco che ne mostra maggiormente i segni. È un titolo che parla di ultimi, di reietti, dove il protagonista è un otaku senza prospettive per il futuro e il resto del cast forse se la passa anche peggio, tra vittime di abusi, postini con le manie di persecuzione e il complesso dell’eroe e addirittura un personaggio senza una gamba, rimpiazzata da un lanciarazzi. Sono diversità presentate attraverso una patina pulp e a tratti caricaturale, ma che poi la tradiscono quando reclamano a schermo momenti più introspettivi dove riflettono sulla loro condizione. No More Heroes, come in genere quasi tutta la produzione di Suda, è qualcosa di costruito a livelli, che sotto le apparenze nasconde profondità insospettabili. Un approccio simile a quello che poi si ritrova in Yoko Taro, meno esagitato in-game (fuori dallo schermo è un altro discorso) ma non per questo meno inclusivo nel suo lavoro.

Il personaggio di Holly Summers sembra il solito fenomeno da baraccone a la Suda, ma alla fine della boss fight regala un momento riflessivo sul concetto distorto di cavalleria.

C’è un momento nel primo Nier che rende esplicito come il gioco parli continuamente del diverso. Il personaggio giocabile fa ritorno al suo villaggio natale accompagnato dagli altri due comprimari, Emil e Kainé. I due decidono di accamparsi fuori. La motivazione è liquidata in un paio di frasi, ma bastano per rendere questo momento uno di quelli che mi è rimasto di più dentro ad esperienza finita. Emil e Kainé non vogliono entrare nel villaggio perché sanno che non verrebbero accettati e causerebbero problemi a Nier. È una cosa che si ripete per tutta l’esperienza, ogni volta che si entra in un villaggio i due NPC rimangono fuori. La diversità di Emil è palese: è dotato di poteri magici, e addirittura nel corso dell’esperienza perderà le sue fattezze umane per assumere un aspetto più scheletrico e mostruoso. Per Emil insomma torna quella dimensione fiabesca già vista in Ueda e ripresa da un certo tipo di folklore, che non a caso ha diversi punti di contatto col fantasy. Nel caso di Kainé la diversità è ancor meno “generica”.

KAINÉ È UN PERSONAGGIO INTERSESSUALE, ED È PER QUESTO CHE SUBISCE DISCRIMINAZIONE

Il gioco più volte si sofferma sul corpo anomalo della ragazza, e in un flashback che ne approfondisce il background viene esplicitamente detto che è stata vittima di bullismo a causa del suo volersi comportare come una ragazza pur non essendolo. Kainé è un personaggio intersessuale e la discriminazione che ha subito per questo è evidente, per quanto Taro abbia la delicatezza di non sbattere la cosa a brutto muso davanti al giocatore o renderla una tematica “di cartellone”, rendendo il messaggio ancora più genuino. Non è un unicum, nella ludografia dell’autore. NieR: Automata sceglie un personaggio femminile come protagonista, ma rispetto a quel primo Metroid così lontano nel tempo le logiche sono sovvertite. Se si prova con insistenza a spostare la telecamera in-game per guardare sotto la gonna di 2B l’automa sposta infastidita l’inquadratura, chiara meccanica di empowerment sottolineata anche da un trofeo dedicato – l’idea è stata poi ripresa anche in Nier Replicant ver.1.22474487139, con una scelta simile a proposito del genere di Kainé. Tra il primo Nier e Automata Taro tornerà anche a lavorare su Drakengard, la serie che lo ha lanciato e di cui aveva abbandonato la direzione dopo il primo capitolo, scegliendo come protagonista un’altra figura da annoverare tra gli ultimi, una prostituta.

BUSCAR EL LEVANTE POR EL PONENTE

Nel mercato mainstream occidentale esempi di questo tipo si sono manifestati soprattutto negli ultimi anni. Dopo insomma l’esplosione (e in un certo senso anche l’appropriazione da parte delle major) del fenomeno indie, dove si ritrova quel sottotesto punk già visto ad oriente e quindi la diversità trova terreno fertile anche alle nostre coordinate. Non è stato un processo privo di proteste e rotture, va detto. Quando nel 2013 Zoe Quinn pubblica Depression Quest si va a formare una spaccatura marcata tra critica e pubblico. Ad una certa frangia di giocatori non piace che si utilizzi il medium per parlare di tematiche politiche e di malattia – non piace la presenza della diversità, insomma. È l’inizio di quello che passerà alla storia come Gamergate, nominalmente ammantato dall’intenzione di battersi per l’etica all’interno del cosiddetto Game Journalism ma nella pratica iniziativa di propaganda contro tutto ciò che negli slogan della campagna vuole piegare il videogioco alla narrativa delle minoranze. È un segnale di opposizione deciso, che avrà conseguenze anche macroscopiche come per esempio la decisione di Phil Fish di mettere in vendita la Proprietà Intellettuale di Fez e Polytron (il suo studio di sviluppo) a seguito degli attacchi ricevuti.

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Chicory: A Colorful Tale è uno di “quei troppi indie” che parla di depressione cui dedichiamo troppa poca attenzione.

Ma il cambiamento può avvenire solo quando ci sono persone disposte a sanguinare per questo. A distanza di quasi dieci anni dal Gamergate si può dire che il videogioco non si è arreso, per quanto strascichi e rigurgiti di quella narrativa siano ancora presenti. La scena indie è stata un driver fondamentale, perché a Depression Quest sono seguiti diversi tentativi di utilizzare il videogioco per parlare del diverso in tutte le sue forme. Farne un elenco sarebbe riduttivo, di certo però non si può non riconoscere l’importanza in questo senso di Hellblade, “indie Tripla-A” datato 2017 a cura di Ninja Theory che non solo rappresenta un grandissimo esempio di linguaggio dei videogiochi, ma ha mostrato che anche un titolo del genere può ritagliarsi un certo successo commerciale. Senza Hellblade molto probabilmente non si sarebbe arrivati ad una presa di coscienza di questo anche nel mainstream.

HELLBLADE: SENUA’S SACRIFICE HA AVUTO UN RUOLO IMPORTANTISSIMO NELLO SDOGANARE IL TEMA DELLA MALATTIA MENTALE ANCHE NEI TRIPLA A

Ma ci sono esempi anche precedenti ad Hellblade, con per esempio Mafia III in grado di trasporre in meccanica di gioco il razzismo dell’America della fine degli anni ‘60. Girando per New Bordeaux nei panni di Lincoln Clay è il giocatore stesso a vivere i segni di quel razzismo, il disprezzo dei passanti, i loro gesti disgustati, le loro affermazioni come carta vetro contro quella pelle che ha l’unica differenza di essere scura. Ma il tentativo più mediatico di approcciare il tema del diverso nel mercato mainstream resta The Last of Us Parte II. Probabilmente per via della sua costruzione, che con l’occhio del senno di poi adesso è facile ricondurre all’uscita del DLC Left Behind del primo capitolo, dove Ellie per la prima volta mostra apertamente la sua omosessualità. Ma non è solo l’omosessualità di Ellie – o il fatto di giocare nei panni di Ellie di per sè – ad approcciare la tematica. Nel corso dell’esperienza c’è una sottotrama dedicata al personaggio di Lev. È un giovane transgender che si identifica come maschio, rinunciando a un matrimonio combinato e arrivando al punto di rasarsi i capelli, gesto che nella cultura dei Serafiti è riservato ai soli uomini. La narrativa attorno a Lev si riflette anche nella scelta del suo doppiatore, che ricade su Ian Alexander. Lev e Ian condividono molto: nascono in un contesto religioso (la famiglia dell’attore è di credo mormone), vengono rifiutati dalla propria famiglia e anche Ian ad un certo punto della sua vita ha scelto di radersi la testa in segno di protesta.

Lev non è stato protagonista di un bacio omosessuale durante un E3 Trailer, ma non per questo riflette meno il tema del diverso in The Last of Us Parte 2.

Non è casuale che a ridosso dell’uscita di The Last of Us Parte II si sia riaccesa una polemica tutto sommato in linea con quella vista nel 2013. È il motivo per cui in fondo abbiamo sempre parlato di diversità attraverso l’arte, adattando questa diversità a quella delle epoche in cui le opere vanno a collocarsi. L’unica differenza tra un dipinto dove l’iconografia della Madonna cristiana viene stravolta rappresentandola con i capelli neri e uno qualunque dei videogiochi citati è il contesto. L’atto di sovversione dietro ha le stesse logiche, lo stesso desiderio di mandare un messaggio a chi l’opera poi la fruisce: non sei da solo. Chiunque tu sia, ovunque tu sia e in qualunque modo tu sei fatto, non sei da solo. Basta solo premere start davanti allo schermo giusto.

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