Come raccontiamo i videogiochi - Editoriale

Cos’è un videogioco? Spogliato di tutte le sue sovrastrutture è “video” e “gioco”, grafica e meccaniche. Nelle recensioni, spesso, il resto è opzionale, aggiunte all’essenziale reso visibile agli occhi dai nomi che precedono la schermata di avvio che non rientrano nella definizione. O almeno, è così che lo raccontiamo di solito.

Immagina di essere un coroner in uno di quegli show alla CSI che andavano forte quando ero un ragazzino io. Sul tavolo operatorio hai l’ennesimo corpo, l’ennesima vittima di qualche caso ancora da risolvere. Estrai il cuore, il fegato e la milza, hai una visione di quelle singole parti che una volta erano una persona che nessuno ha mai avuto. Puoi capire tanto da queste, persino in che modo è morto. È il tuo lavoro. Eppure non potresti mai dire di conoscere chi sta sul tavolo operatorio: puoi sapere se fumava, cosa mangiava, quanta attività fisica faceva, ma nulla di tutto questo ti dirà per quale motivo batteva quel cuore che adesso s’è fermato per sempre. Quel corpo pesa 21 grammi in meno di quando era in vita, l’anima lo ha lasciato nel momento in cui hai iniziato a dissezionarlo o forse anche prima.

DIRTY GAMING

Il modo in cui raccontiamo i videogiochi spesso e volentieri è questo. Vogliamo che sia questo: trama, gameplay e grafica analizzati come organi estratti da un corpo morto, non per come funzionano assieme quando questo è vivo. Mancano quei 21 grammi. Sono solo 21 grammi, è poca cosa rispetto agli 80 e più chili sul tavolo e alle cento ore per raggiungere il 100% di Horizon Forbidden West. Non hanno nemmeno fondamento scientifico, è il calcolo di uno scienziato pazzo da science fiction fatto agli inizi del ‘900. Eppure a volte quei 21 grammi sono pesantissimi. In quei 21 grammi, per esempio, c’è tutto il significato di Hellblade: Senua’s Sacrifice. Nessuno può mettere Senua sul tavolo operatorio più di quanto si possa mettere Baby in un angolo in quel vecchio film di balli proibiti. Ed Hellblade in effetti assomiglia a un ballo proibito, il videogioco diventa una protesi per noi che ci definiamo “normali” con cui fare qualche passo verso chi soffre di malattie mentali.

Nessuno può mettere Senua sul tavolo operatorio più di quanto si possa mettere Baby in un angolo in quel vecchio film di balli proibiti

Si è detto di tutto su Hellblade, del suo gameplay ripetitivo quando costringe chi sta davanti allo schermo a cercare ossessivamente sempre gli stessi simboli per poter procedere, oppure del suo combat system scolastico, quasi un’anomalia in quel curriculum vitae di Ninja Theory costellato di Heavenly Sword e DmC Devil May Cry. Si è provato a spiegare tutto ciò con le necessità di budget, appellandosi alla razionalità tipica dell’emisfero sinistro. Del resto Ninja Theory era uno studio relativamente piccolo e relativamente indie (Hellblade è del 2017, ben prima dell’acquisizione da parte di Microsoft), non poteva che scendere a qualche compromesso ed è inevitabile pensarla così se le due meccaniche vengono espiantate dall’opera. Nell’insieme delle parti di Hellblade però questa ripetitività ha un suo senso, serve a ribadire la condizione mentale di Senua attraverso il ludo, raccontando con il giocato e non solo con le cutscene.

Chi sta dall’altra parte si ritrova a cercare le rune ambientali nell’Helheim, prima ancora che sia il gioco a indicare quali servono per andare avanti. Ci si affida alle Furie, le voci nella testa della protagonista, per sapere quando schivare o parare un attacco, la pazzia che diventa una zona di comfort evidente soprattutto nei momenti in cui le voci vanno via. Innegabilmente Hellblade è ripetitivo, specie se si fa l’esercizio di paragonarlo ad altre opere nominalmente simili. Capisco la ratio dietro chi vive e vede questo come un difetto, di chi parla di “gameplay da 7”. Scorporato da tutto il resto in effetti lo è, tuttavia rimane un fatto, un dato, nel senso informatico del termine: per diventare informazione ha bisogno del suo contesto.

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L’idea di “gameplay da 7” presuppone che un videogioco sia la somma delle sue parti. È quello che nella critica si chiama post-strutturalismo, un approccio per cui – un po’ come il coroner di cui sopra – si divide l’opera per analizzarne singolarmente gli elementi. Nei videogiochi lo si fa dai tempi delle riviste dove si davano appunto voti diversi alle varie componenti di un gioco, la cui media poi diventa il voto complessivo. Il presupposto di questo ragionamento è che tutte queste parti abbiano lo stesso peso. Ma allora come la mettiamo con DOOM?

John Carmack non a caso era convinto che “la trama nei videogiochi è come la trama in un film porno, ti aspetti che ci sia ma in fondo non serve a niente”

DOOM è l’esempio principe di videogioco che tratta la narrativa con superficialità. John Carmack non a caso era convinto che “la trama nei videogiochi è come la trama in un film porno, ti aspetti che ci sia ma in fondo non serve a niente”, citando alla lettera da Masters of Doom. Vale la stessa cosa per diversi altri titoli: dal recente Hi-Fi Rush fino ai Souls di From Software, dove l’accento è sulla lore e sul world building ma la narrazione degli eventi vera e propria è ridotta a poco più che un pretesto dietro la quest dell’Undead di turno. La trama non è necessariamente una delle parti di un videogioco, anzi, a voler approcciare il discorso con un occhio storiografico è qualcosa che è arrivata solo successivamente nel medium, confinata per diversi anni nei libretti perché ritenuta non degna di occupare spazio nella ROM della cartuccia. Non è un’eresia immaginare un videogioco senza narrativa, insomma, e a questo punto si potrebbe applicare lo stesso discorso ad altre componenti dell’opera.

The Last Guardian è senza dubbio una delle esclusive per PlayStation 4 meno riuscite dal punto di vista tecnico. Frame rate instabile, telecamera da mal di mare, clipping. È “video” più “gioco”, per cui è assolutamente legittimo pensare che la componente video debba pesare e a differenza della trama non possa essere trascurata. Eppure The Last Guardian non lo sa e vola lo stesso, toccando da vicino tantissimi giocatori e creator che, nonostante tutto, lo ritengono un must play più grande della somma delle sue singole parti.

The Last Guardian racconta attraverso le sue meccaniche il rapporto simbiotico tra essere umano e animale, un’esperienza che accomuna tanti di noi e che non richiede di conoscere il significato del clipping

Uno degli essays di Jacob Geller a proposito di The Last Guardian si intitola “il momento più bello della generazione“. È un video in cui l’autore tra l’altro collega la storia di Trico e del ragazzo al rapporto che lui ha con il suo cane, parlando del gioco attraverso quello che è il suo vissuto personale. È un modo efficace per veicolare il messaggio di Fumito Ueda e di gen DESIGN, perché The Last Guardian è un altro di quei giochi che si racconta attraverso le sue meccaniche e parla proprio del rapporto simbiotico tra essere umano e animale. Un animale domestico è un livellatore, un’esperienza che abbiamo avuto in comune tutti e che non richiede di conoscere il significato del clipping.

Avremo sempre bisogno dei chirurghi, siano sviluppatori dalla mano ferma alla John Romero o esperti del bisturi votati allo studio delle loro opere. Quello che abbiamo scoperto su come funziona il corpo umano lo dobbiamo a quelle persone che hanno immerso le loro mani nelle viscere per capirne la meccanica. Per cercare tutte le risposte però il corpo va studiato anche da vivo. Oltre la scienza c’è un’altra dimensione fatta di filosofia, di arte, di quel superfluo che nasconde l’essenziale agli occhi ma aggiunge significati importanti quanto la frequenza cardiaca o il numero di fotogrammi al secondo. I videogiochi in fondo sono quello che ci dà luce, e come la luce hanno la natura sia dell’onda che della particella. Non solo la somma delle loro parti, ma anche quella delle nostre vite.

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