A volte vorrei essere un casual gamer

I videogiochi mi piacciono. Mi piacciono un sacco, altrimenti non sarei qui a scriverne. Ma a volte vorrei mi piacessero un po’ meno, esserci dentro meno in profondità. A volte vorrei essere un casual gamer.

casual gamer

Specifico per chi con la terminologia videoludica fosse rimasto a inizio anni 2000: per me casual gamer è un termine che non ha assolutamente alcuna accezione negativa; semplicemente indica qualcuno che si approccia ai videogiochi in maniera meno costante, più rilassata, e che se si informa sulle nuove uscite lo fa in maniera sporadica, generalmente limitandosi ai titoli più grandi e a quelli che rientrano nella sua nicchia di interesse. Ripeto, non c’è nulla di male in questo: il bello dei videogiochi è che ce ne sono così tanti che permettono a chiunque di avvicinarsi a loro al ritmo che preferisce. Giocare una volta a settimana, giocare sul cellulare, giocare solo a FIFA, non ti rende un giocatore di seconda categoria.

Quello che fa, a volte, è renderti frutto della mia invidia. Non per ragioni da “i am very smart” tipo che siccome io gioco di più allora riesco a vedere meglio difetti e problemi e allora, me tapino, sono maledetto dal peso della conoscenza mentre ah, loro anime pure e ingenue sì che possono godersi in maniera scevra da preconcetti il puro piacere del ludo! No, assolutamente, anche perché a me i videogiochi continuano a piacere e a divertire, spesso in modo differente ma non per questo più o meno giusto. Il problema mio è che dato che dei videogiochi mi piace leggerne, scriverne, parlarne, discutere, spesso e volentieri mi tocca anche vedere quello che c’è dietro. Facciamo un esempio: è notizia recente che, durante l’ultimo Dev Talk, gli sviluppatori di Overwatch 2 hanno chiarito che la visione iniziale per la componente PvE è cambiata di molto. A differenza di quanto annunciato nel 2019, non ci sarà più una vera modalità storia, ma semplicemente eventi occasionali che saranno rilasciati con le varie stagioni, in linea con la struttura live service del gioco.

CHE I PIANI DI SVILUPPO CAMBINO È NORMALE. MA LA MODALITÀ STORIA ERA LA GRANDE GIUSTIFICAZIONE PER OVERWATCH 2

Ora. Che i piani di sviluppo cambino nel corso dei lavori è normale. Succede spessissimo, succede a tutti, ed è tutt’altro che strano accada sopratutto con i tempi di sviluppo sempre più lunghi che caratterizzano l’industria dei videogiochi. Insomma, io se leggo un mio pezzo a distanza di una settimana trovo almeno quindici cose da cambiare, mi sembra normale che lo stesso succeda a progetti che durano tre, quattro, cinque anni. A maggior ragione se si considera quanto turbolento sia stato l’ultimo anno all’interno della Casa di Irvine. Però qua stiamo parlando dell’intero motivo per cui Blizzard aveva venduto Overwatch 2 al suo pubblico. La presenza di una modalità PvE era una grossa parte della giustificazione per cui non si poteva continuare a lavorare ad Overwatch, ma serviva qualcosa di più, un nuovo lancio E così abbiamo avuto nuove campagne promozionali, nuovi cicli di anteprime, nuove recensioni per quello che è sostanzialmente un aggiornamento glorificato, perché che non mi si venga a dire che per reworkare due personaggi e diminuire il numero di giocatori in campo da sei a cinque serve un nuovo gioco (che tra l’altro ha completamente rimpiazzato quello vecchio, Overwatch 1 non esiste più). La vera grossa novità intanto è stata ridimensionata: certo, come ha chiarito il director Aaron Keller giusto poche ore fa ci saranno delle missioni cooperative che porteranno avanti la storia dell’universo, ma la cosiddetta “Hero Mode”, quella che permetteva una crescita del personaggio, non è più nei piani. Come si fa a non ridere amaramente di fronte a uno sviluppo simile?

Volete un altro esempio? Ma certo, dopotutto al momento della stesura di queste righe siamo solo a mercoledì mattina, volete che questa settimana non abbia già altri motivi di sconsolati sospiri da offrire? Trasferiamoci dalla costa occidentale degli USA a quella orientale, per la precisione nei dintorni di Boston, dove alloggia il piccolo studio The Molasses Flood. Da qualche ora a questa parte un po’ più piccolo di prima, dato che CD Projekt – che ha acquisito i creatori di Flame in the Flood e Drake Hollow nell’ottobre del 2021, per metterli a lavorare su un spinoff di The Witcher  – ha deciso, in seguito a “cambiamenti al progetto”, di licenziare 21 persone.

THE MOLASSES FLOOD È UN PICCOLO STUDIO. DA QUALCHE ORA A QUESTA PARTE, UN PO’ PIÙ PICCOLO

Ripercorriamo i passaggi, casomai non fosse chiaro. The Molasses Flood era uno studio indipendente, che aveva pure creato bei giochi. È stato acquisito da CD Projekt per metterlo a lavorare su un gioco di The Witcher con componenti multiplayer. Evidentemente qualcuno a Varsavia si deve essere reso conto che il multiplayer se non hai esperienza è un bel casino (ricordiamo che avrebbe dovuto esserci pure in Cyberpunk 2077, così en passant), e ora The Molasses Flood si trova ad organico dimezzato e prospettive per il futuro immagino non molto rosee. Bella vero l’industria dei videogiochi?

A ben pensarci The Flame in the Flood è pure una discreta metafora di come sia difficile tirare avanti creando videogiochi.

E ripeto, ho preso solo i primi due (2, numero pari inferiore a 4) giorni di questa settimana. E ancora ci sarebbero altre cose di cui parlare, ma non ho la voglia né la forza di mettermi a parlare dei sauditi che aumentano la loro percentuale di azioni di Electronic Arts, o del dibattito su quando la qualità tecnica dei videogiochi è importantissima e quando invece si può tranquillamente chiudere un occhio, o del fatto che gli sviluppatori di Battlefield abbiano ritenuto necessario sottolineare ancora una volta come no, le minacce personali non aiutano chi lavora ai videogiochi a fare di meglio. Quindi sì. A volte vorrei davvero essere solo un casual gamer, e non dovermi trovare esposto quasi quotidianamente a notizie che a questo punto non sono nemmeno più sorprendenti ma solo stancanti.

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