Facce da TGM – L’Opinione è lo spazio dedicato alle “columns” di The Games Machine: articoli e visioni su argomenti caldi o fortemente dibattuti che animano le discussioni, anche molto dure, all’interno della redazione di TGM, talvolta con posizioni – davvero o solo in apparenza – antitetiche. L’obiettivo è dar voce ai nostri redattori come specchio del quadro complesso e articolato, talvolta persino controverso, che circonda il mondo dei videogiochi, all’interno di confini dettati da etica e buon gusto ma senza depotenziare il messaggio e, così, la ricerca di confronto su temi sensibili e delicati. Buona lettura!
Con l’uscita di Senua’s Saga: Hellblade II è diventata chiarissima una cosa, tipica nell’industria dei videogiochi: non siamo per nulla diversi dai lettori di fumetti che “chiamatele Graphic Novel”. Perché come loro ci vergogniamo ancora di fruire una forma d’arte che siamo i primi a non riconoscere come tale.
Abbiamo visto il medium affrancarsi dall’idea che un videogioco debba per forza essere divertente e ridursi a intrattenimento
Parte del pubblico non accetta che The Stanley Parable sia un videogioco perché “non si gioca”, ancora legato ad una concezione gameplay-first di quello che si dovrebbe masterizzare su disco. E chissà come reagirebbero queste stesse persone all’idea che un The Talos Principle 2 sia molto più gioco di ruolo di Dragon Age pur non avendo nessun menù con le statistiche del personaggio, semplicemente perché The Talos Principle 2 ti chiede di fare la stessa cosa che si fa al tavolo con un master: ruolare. Ma a lasciarmi perplesso è l’idea contraria – anche se per certi versi uguale – che tutto quello che ho nominato fino ad adesso (tranne Metroid e Dragon Age) non sia videogioco non perché è di meno, ma perché è di più. Come se l’etichetta “videogioco” potesse togliere valore agli Hellblade, ai The Stanley Parable e ai The Talos Principle.
GAME SHAMING
Dopo anni di processi alle intenzioni, interrogazioni parlamentari e senatori che provano a fare campagna elettorale demonizzando il videogioco è fisiologico che si percepisca ancora uno stigma sociale nel definirsi videogiocatori, almeno qui in Italia. Prevedibilmente la pandemia non è servita a nulla, e chi nella sua ora più buia ha avuto bisogno di fare quello che noi facciamo da tutta una vita – evadere per qualche ora – mentre era impossibilitato ad uscire è tornato presto alle vecchie abitudini una volta revocati i lockdown. Nel resto del mondo tutto questo è sentito meno, complice il fatto che la cultura attorno al gioco smuova più soldi: alle nostre latitudini dobbiamo accontentarci di parlare sulla stampa generalista di Microsoft che spende un sacco di miliardi per il brand Xbox o delle cifre monstre generate da un titolo a caso di Rockstar Game, perché il massimo che si è saputo produrre è Mario + Rabbids che è comunque una produzione Ubisoft (e quindi francese).
Come legittimiamo i videogiochi coi babbani? Parlando di quanto fatturano. Ovviamente all’estero, perché in Italia…
THE REVIEW PARABLE
“Comprensibile” e “giustificabile” però rimangono due concetti distinti, e da chi nominalmente si occupa di raccontare il videogioco è fondamentale pretendere di più. Specie se questo “più” è alla fin fine poca roba, semplicemente accettare che i videogiochi a differenza di chi ne parla hanno raggiunto e superato la loro maturità e hanno già trovato le risposte a tutte quelle vecchie domande cui si accennava prima. Mentre noi eravamo troppo occupati a capire come definire Beyond: Due Anime The Stanley Parable si chiedeva già nel 2013 cosa fosse un videogioco. Quali fossero i suoi limiti, se fosse possibile superarli, se la scelta fosse davvero da ritenersi tale all’interno di un sistema predeterminato.Nove anni dopo The Stanley Parable Ultra Deluxe non si limita a portare il Fuoco di Prometeo anche a chi gioca su console, ma aggiunge altre riflessioni sul significato dei sequel, sul rapporto che i giocatori hanno con la promozione di un’opera (che il marketing vede invece come merce), sulla critica al medium stessa. Tutto questo viene fatto da un videogioco usando gli strumenti stessi del videogioco.Non è il raggiungimento della maturità, quanto il conseguimento della laurea.
Il problema, forse, è che chi sviluppa videogiochi è più avanti di chi li racconta. Un sacco di game designer hanno fatto loro le lezioni insegnate dalle opere di altri autori, spesso e volentieri poi rimasti incompresi – se non post-mortem – sulle pagine di una rivista o tra le righe imbellettate dai fogli di stile di un sito Internet. GameSpot nell’ottobre del 2000 criticava Alien Resurrection per PS1 per via del suo “terrificante” (cito alla lettera) sistema di controllo che utilizzava lo stick analogico sinistro per muovere il personaggio e quello destro per la telecamera. Bungie l’anno dopo portava sulla prima Xbox Halo, tra gli evangelizzatori dello sparatutto in prima persona su console proprio grazie allo stesso “terrificante” sistema di controllo di Alien Resurrection. Si potrebbero citare decine di esempi del genere, titoli definiti prima dal pubblico e poi dalla stampa stessa “walking simulator” con spregio cui poi anche gli executive di cui si parlava prima si sono inchinati, anche solo per sbaglio, sposando quel modo di intendere il videogioco nelle produzioni più mainstream.
Dobbiamo rassegnarci all’evidenza dei fatti: chi fa videogiochi li capisce meglio di chi li racconta