Ready at Dawn e la retorica dell’inutile – L’Opinione

Ready at Dawn è morta, lunga vita a Ready at Dawn. Se da una parte non ci arriva il silenzio, quello che sarebbe da prendere in considerazione quando non si sa che dire, ci pensa invece la retorica, la stessa che ricorda, parafrasando alcuni commenti, quanto The Order: 1886 sia un videogioco brutto bruttissimo. Peccato che, undici anni dopo dalla pubblicazione, tanti di coloro che se lo ricordano sono gli stessi che hanno maledetto Sony quando non c’è stato quel prosieguo che era nei piani del team – quindi, ecco, tanto brutto bruttissimo non era – guidato da Andrea Pessino, Didier Malenfant e Ru Weerasuriya. I tre capisaldi del team che in VR hanno proposto Lone Echo e Lone Echo II insieme ai loro bei multiplayer, piaciuti tanto al nostro SecondVariety, palesando ulteriormente, come ce ne fosse bisogno, il loro talento

A distanza di giorni dalla chiusura di Ready at Dawn, sto pensando a mente fresca cosa scrivere senza arrabbiarmi più di quanto dovrei. Ready at Dawn ha chiuso dopo quindici anni di attività. Di quegli ex dipendenti di Blizzard e Naughty Dog, che la storia ha incensato come esperti massimi del settore, figura una personalità italiana – visto che si parla sempre d’Italia in recensioni e articoli ma non si capisce a che punto è l’Italia nell’egemonia dell’industria (spoiler, è a un gradino basso, nonostante qualcuno pensi il contrario) – che ha davvero dimostrato qualcosa, nel panorama dei videogiochi; mica tarallucci e vino come tanti altri.

ready at dawn The Order 1886 GameTrust GameStop

Parlo di Andrea Pessino, nato ad Asti, Piemonte, trasferitosi poi negli States per seguire quei pixel che vediamo esplodere su schermo e che ci eccitano a tal punto da essere delle parti integranti delle nostre esistenze. Pessino è nato in un periodo in cui i videogiochi, al tempo, stavano tenendo una cerchia più ristretta ma coriacea di appassionati davanti alla schermo.

AL PASSO DI READY AT DAWN

Quando penso a una valenza reale, tangibile e di spessore nel panorama mondiale, se rifletto su una personalità che ha fatto bene all’Italia videoludica nel mondo, la risposta, per curriculum e talento dimostrati in oltre trent’anni di carriera, è Andrea Pessino, di cui dovremmo essere orgogliosi non tanto come un italiano che ce l’ha fatta, ma perché è uno sviluppatore che ha creato opere per molto tempo nelle classifiche di PlayStation Portable quando, al tempo, nessuno avrebbe mai immaginato quanto una console portatile che non fosse di Nintendo potesse dire la propria. Andrea Pessino, oggi, non è il solo a essere riconosciuto fuori dal Bel Paese: è bene citare Simone Granata e Davide Soliani, che ha lasciato da poco Ubisoft Milano dopo lo straordinario successo di Mario + Rabbits.

Di talenti reali, riconosciuti fuori da qui, ne abbiamo eccome

Non appena ho saputo della notizia della chiusura di Ready at Dawn, lo ammetto, mi sono rattristito e avvilito. Di nuovo. Di fronte a chiusure, a licenziamenti e a un monte di software house costrette ad abbandonare il loro sogno, questo avvenimento continua a dare la stessa lezione, nel grande ordine delle cose: le aziende non sono onlus. E questo lo sappiamo; d’altronde, perché stupircene? In questo caso, anche per merito dei racconti avvenuti sui social nel corso degli anni e a un buonissimo videogioco come The Order: 1886, la ricezione alla notizia da parte della community ha dato modo alla stessa di dividersi in due, con chi ricordava quanto il videogioco di Ready at Dawn fosse una tech demo (parole affibbiate anche quando la gente si è arrabbiata perché la critica specializzata ha osato raccontare Senua’s Saga: Hellblade II come andava narrato), e chi si è dispiaciuto senza mezzi termini o distinguo.Lone Echo 2 recensione

Il punto, dunque, non è più stato che Meta, azienda che fattura miliardi di dollari, abbia chiuso un team di sviluppo che aveva acquisito poco tempo prima per realizzare videogiochi in VR. Era che The Order: 1886 fosse una delusione perché durava troppo poco. Io sono di una scuola diversa, che non vede il gameplay unicamente al centro del villaggio, che non supporta l’idea di un videogioco longevo perché sì, ai limiti della bulimia. Se un videogioco ha qualcosa di valido da raccontare, qualunque cosa sia, è bene che si prenda il proprio tempo. E comunque, giusto per capirci, The Order: 1886 non era un videogioco perfetto. Non era un titolo da lancio per far vendere PlayStation 4 come ho letto altrove. Se lo è stato davvero, ecco, basterebbe indagare sui lavori svolti dallo studio.

Era un progetto che arrivava da un team che ha pubblicato nel suo storico opere del calibro di God of War: Chains of Olympus, Daxter e God of War: Ghost of Sparta, non da scappati di casa

Era un progetto che arrivava da un team che ha pubblicato nel suo storico opere del calibro di God of War: Chains of Olympus, Daxter e God of War: Ghost of Sparta. Un team che sperava, come si intende ottimamente alla conclusione di The Order: 1886, in un secondo capitolo. Un prosieguo che avrebbe mostrato molto più di quanto Ready at Dawn avesse realmente da raccontare, sia in termini narrativi che di design. Qualcuno direbbe di concentrarci sul perché abbia chiuso Ready at Dawn, ma nessuno ammette, invece, che forse sarebbe meglio capire perché è stata acquisito per poi essere chiuso. Si dirà che i giocatori non comprendono le scelte dell’azienda perché, d’altronde, non ne hanno una. Se a spezzare le ali è però Mark Zuckerberg, quando non è concentrato a mandare in tilt l’algoritmo di Facebook e Instagram per impedire alle persone di parlare del massacro palestinese, si comprende quanto tutto questo stia in un quadro così tanto capitalistico da far accapponare la pelle.

THE ORDER: 1886, UN GIOCO MAI COMPRESO

“Dura un pomeriggio”, “Si spara e basta”, “La storia s’interrompe sul più bello” e “Troppo corto”. La retorica che si sta perseguendo fa, ecco… abbastanza schifo. È la stessa che, però, si manifesta diversamente quando un team chiude. Era fattualmente un videogioco problematico,per certi versi lo penso anch’io, ma è ricordato per l’unico aspetto negativo che non può in alcun modo definirsi una mancanza da parte del TPS di Ready at Dawn. È l’appunto meno utile alla discussione reale, ovvero l’ennesima chiusura, che dovrebbe far capire che no, non sta affatto bene, il panorama videoludico. Anche GameInformer dovrebbe avercelo fatto capire. Era una rivista storica esattamente come lo è The Games Machine, pur con qualche anno in meno (e dopo aver scritto questa frase, beh, ho toccato ferro).

Durava un pomeriggio ma almeno entrava dentro

Mi domando da due giorni, comunque, se qualcuno si ricorda davvero di The Order: 1886 e di cosa ci fosse di reale e tangibile, oltre a un comparto tecnico e grafico che puntava al fotorealismo diversi anni prima rispetto a quel che offre attualmente l’Unreal Engine 5 anche in opere dal budget non certo stratosferico, come Nobody Wants to Die. Ho ripensato alle bande nere, le stesse che ho visto in Senua’s Saga Hellblade II, e quante esse dessero fastidio perché, a detta di molti, “erano troppo cinematografiche”. Una frase, forse l’unica, che in questi giorni non è stata propagata ai quattro venti. E non cambiava il fatto che il game design di The Order: 1886 non era molto diverso da quello di Gears of War e di altri TPS successivi.ready at dawn facebook

La struttura di gioco non era originale; tuttavia, era ben realizzata: tante armi, un modesto numero di livelli e una spinta per rigiocarlo a una difficoltà superiore. Magari la decisione di riviverlo con un livello di sfida diverso avrebbe aumentato il monte ore, specie per gli assatanati di Trofei. È la resa finale, quella che è la summa totale, che dovrebbe essere rilevante, in qualsiasi analisi.

Londra era fantastica, in The Order: 1886

Quello che fece innamorare molti – me compreso – era Londra. Una Londra diversa, steampunk, forte di un contesto differente, preso a piene mani da opere letterarie e dal mondo del cinema. Leggende popolari, i nomi dei personaggi che ricordavano il Ciclo Arturiano e tanto altro. C’era scrittura, in The Order: 1886. Era un progetto embrionale che, nel futuro, sarebbe potuto diventare una serie dalle potenzialità enormi. Così, però, non è stato. È arrivato Lone Echo, dopodiché il secondo capitolo dello stesso franchise, con un team che ha percorso un processo evolutivo diverso da quello che altri avrebbero immaginato, mentre Sony lasciava andare il talentuoso team per inseguire operazioni action talvolta discutibili.

Lone Echo 2 recensione

Non ricordo di aver letto qualcuno scrivere delle petizioni per chiedere a Sony di puntare nuovamente su Ready at Dawn. In quel periodo, e mi riferisco alla fascia temporale d’uscita di The Order: 1886, andava per la maggiore il mondo aperto che portò The Witcher 3: Wild Hunt. utile a tutti per massimizzare il proprio tempo a seconda di quante cose da fare c’erano. L’approccio, diceva qualcuno, era il modo giusto per dare al giocatore imponenti ore di gioco, cosa fatta anche con opere di caratura minore come Days Gone, videogioco che dura quaranta ore o anche cinquanta se si seguono tutte le missioni secondarie. È un prodotto che, una volta concluso, non lascia nulla di particolarmente diverso da quello che, invece, proporrebbe Horizon: Forbidden West, di cui non si parla mai abbastanza, e bisognerebbe farlo. E invece si afferma monoliticamente quanto The Order: 1886 fosse brutto, laddove forse è meglio stare in silenzio se non si ha qualcosa di più sfaccettato da dire. È gratis, è la scelta da prendere, è la scelta da abbracciare. Riflettere meglio anche per provare un briciolo di empatia. Non dico tanta; un po’.

IL TEAM OLTRE THE ORDER: 1886

Non è un caso, comunque, come molti dimentichino o non citino altre produzioni di Ready at Dawn. Uno studio nato nel 2003 da veterani del settore, da gente che arrivava da Blizzard e Naughty Dog, che ha lavorato assiduamente a opere che a loro modo hanno lasciato il segno. Penso, che so, a God of War: Chains of Olympus: fu un videogioco scritto e diretto con intelligenza, passione e conoscenza del materiale di appartenenza, con un Kratos diverso da quello odierno, pronto ad abbracciare la vendetta, imbracciando le Lame del Caos, annidandosi nei sogni di Morfeo e nella lunga notte.

Ready at Dawn era uno studio di sviluppo talentuoso che si è ritrovato nelle mani del cinismo di una compagnia, di quelle che ricordano un po’ le corporazioni immaginate dal cyberpunk. Il paradosso è Meta che ha incentivato i dipendenti a proporre di ricoprire altri ruoli all’interno di Oculus Studio. Si parla di riorganizzazione, di pensare attentamente agli scopi e ai benefici, a cercare altre strade, per arrivare ai guadagni tanto agognati. Meta ha scelto di seguire la strada interminabile di altri dell’industria con l’obiettivo di dire al mondo che non è successo nulla. Invece, è successo qualcosa. E no, l’epilogo non è stato ancora una volta positivo.

Ready at Dawn è morta, lunga vita a Ready at Dawn.

 

Articolo precedente

Parking Garage Rally Circuit – Anteprima Hands On

Articolo successivo

Il Regno di DOOM + DOOM II – Speciale

Condividi con gli amici










Inviare

Password dimenticata