Quale futuro per Ubisoft? – L’Opinione

Tra entrate inferiori alle aspettative, diversi progetti fallimentari e l’ennesimo rinvio di Assassin’s Creed Shadows, pare che Ubisoft navighi a vista da molti anni a questa parte.Ubisoft futuro editoriale raymanÈ notizia di pochi giorni fa che Assassin’s Creed Shadows non uscirà più a febbraio, bensì a marzo. Un ulteriore rinvio, questa volta di un mese, volto a fornire agli sviluppatori il tempo aggiuntivo necessario a rifinire il prodotto finale. Una scelta comprensibile dal momento che il futuro di Ubisoft è con buona probabilità legato al successo di quello che di fatto è rimasto l’unico prodotto di punta della società francese.

Il publisher transalpino non può permettersi un ulteriore passo falso dopo i tanti, sicuramente troppi, compiuti negli ultimi anni. Gli insuccessi si sono ormai accumulati, uno sull’altro, da parecchi mesi – se non anni – a questa parte. Da Star Wars Outlaws a XDefiant, indicati dalla stessa Ubisoft come causa dei ricavi al di sotto delle aspettative nel periodo natalizio, fino ad arrivare ai prodotti legati alla sfera web3 e NFT, passando per quel Prince of Persia: The Lost Crown che non è riuscito a fare breccia nel mercato, nonostante la qualità molto elevata.

Champions Tactics: Grimoria Chronicles è uno dei giochi con NFT di Ubisoft. Inaspettatamente ha floppato.

Ma oltre al danno economico legato a scelte gestionali discutibili, vi è anche il danno d’immagine. Non credo di scrivere una stupidaggine nell’affermare che ormai la reputazione di Ubisoft è segnata da uno stigma indelebile. I prodotti del publisher francese sono visti con diffidenza da una parte consistente dei videogiocatori, a torto o a ragione non ha importanza: ciò che conta è la percezione del pubblico, che si traduce in accoglienze tiepide e vendite deludenti. E tutto questo, intendiamoci, è colpa della stessa Ubisoft. Una società che ostinatamente continua a puntare sempre sulla stessa identica tipologia di videogiochi, quello degli action open world, per ogni singolo franchise.

“Open world à la Ubisoft” è diventata un’espressione dispregiativa

Non è un caso che nell’ultimo decennio sia stata coniata la definizione “open world à la Ubisoft” per identificare un certo tipo di videogioco ambientato in un mondo pieno zeppo di attività, spesso molto dispersivo. Far Cry, Avatar: Frontiers of Pandora, Star Wars Outlaws, i vari Watch Dogs, gli ultimi Assassin’s Creed e persino The Crew… la sensazione di giocare sempre allo stesso videogioco con una skin diversa è palpabile. Ai manager non viene il dubbio che forse, e dico forse, la gente si sia stancata di questa formula? Eppure Yves Guillemot e compagni hanno perseverato imperterriti a battere questa strada. In ogni singola dichiarazione agli investitori e alla stampa, lo stesso Guillemot non ha fatto altro che ripetere che Ubisoft avrebbe continuato a puntare su questa tipologia di open world e sui live service.

Dopo uno sviluppo travagliato, XDefiant non è durato neanche un anno.

Già, i live service. Al di là di Rainbow Six Siege e For Honor che sono riusciti a ritagliarsi un angolino in un settore sovraffollato, tutti gli altri tentativi di trovare la gallina dalle uova d’oro hanno fallito miseramente. Ultimo in una lunga serie di flop è il già citato XDefiant, ma è impossibile non citare anche Skull & Bones, Riders Republic, Roller Champions, Hyper Scape, e via discorrendo. Tutti, chi più chi meno, rivelatisi prodotti di qualità discutibile, nonché uno spreco di tempo e denaro.

Il baratro sembra sempre più vicino

Com’è il detto? Errare è umano, perseverare è diabolico? Ecco, se nonostante tutto si continuano a fare sempre gli stessi errori, allora forse è arrivato il momento di compiere una seria riflessione e cercare di capire dove sia il vero problema. Anche perché non può essere colpa dei dipendenti, che come sempre pagano con il licenziamento per gli errori di chi sta al vertice. Non può essere colpa loro se si naviga a vista. Poi si possono assoldare tutti i consulenti possibili e immaginabili per valutare “trasformazioni strategiche e opzioni capitalistiche per estrarre il maggior valore per gli stakeholder”, come riportato nell’ultimo comunicato che suona tanto come una supercazzola aziendalese, ma tutto questo non serve a nulla se chi deve prendere le decisioni continua a guidare la società verso un baratro che sembra sempre più vicino.

Il successo di Assassin’s Creed Shadows è cruciale: Ubisoft potrebbe non avere altre possibilità.

E allora cosa riserva il futuro per Ubisoft? Non ho la sfera di cristallo ma, per la prima volta in molti anni di indiscrezioni, Yves Guillemot non ha escluso la possibilità che la società possa essere acquisita da terzi. Il primo sospettato non può che essere Tencent, già secondo azionista di maggioranza relativa dopo la stessa famiglia Guillemot. Un’eventualità che porta con sé l’ombra del governo cinese, di cui Tencent è di fatto un’estensione per via dei suoi legami con il Partito Comunista Cinese. Inoltre non bisogna dimenticare che la holding è già il primo attore globale per fatturato nel settore dei videogiochi, pertanto l’acquisizione di un grande publisher come Ubisoft porterebbe a un ulteriore accentramento di quote di mercato nelle mani di una singola entità.

Microsoft non ha chance di acquisire Ubisoft

Impossibile, invece, l’eventualità che il publisher possa finire in mano a Microsoft. Se ricordate, Ubisoft detiene i diritti perpetui sullo streaming di tutti i videogiochi targati Activision Blizzard King nei territori al di fuori dell’Area Economica Europea. La cessione di tali diritti da parte della Casa di Redmond fu un passaggio fondamentale per l’approvazione dell’acquisizione di ABK da parte dell’antitrust britannico, pertanto una qualsiasi mossa da parte di Microsoft potrebbe essere mal vista dalla Competition and Markets Authority del Regno Unito e portare a eventuali sanzioni, o peggio.

Sta a Ubisoft decidere su quali servizi di streaming approdano i videogiochi Activision Blizzard King.

E l’altro big? Da un lato Sony potrebbe non avere interesse nei confronti del catalogo di Ubisoft, in parte sovrapponibile per tipologia ad alcune delle serie PlayStation (vedere Horizon e Ghost of Tsushima/Yotei). Dall’altro stiamo parlando di un colosso che ha già i suoi bei grattacapi in ottica di contenimento dei costi per aumentare il margine operativo, pertanto farsi carico di un’altra serie di studi in giro per il mondo che contano la bellezza di 18.666 dipendenti (dato aggiornato all’ottobre del 2024) potrebbe non essere la scelta più saggia del mondo.

L’enorme mole di dipendenti potrebbe scoraggiare molti potenziali acquirenti

A dire il vero, chiunque decida di acquisire Ubisoft dovrà per forza di cose fare i conti con i costi di mantenimento elevati, tra cui quelli legati al personale. Come spesso accade in questi casi, l’acquirente potrebbe operare dei tagli orizzontali che andrebbero a colpire prima di tutto i dipendenti. Un’operazione che sono abbastanza certo avverrà anche nel caso in cui il publisher dovesse decidere di rimanere indipendente, magari tramite un’operazione di buyout da parte di una cordata guidata dalla stessa famiglia Guillemot. Anzi, a dire il vero i tagli al personale ci sono già stati negli ultimi due anni, con un decremento della forza lavoro complessiva pari a oltre 2.000 dipendenti negli scorsi ventiquattro mesi.

The Rogue Prince of Persia è un passo nella giusta direzione, anche se si tratta di un progetto portato avanti da uno studio esterno.

Ma al di là dei discorsi economici e finanziari, quello che a mio avviso servirebbe davvero è un radicale cambio di passo. Una nuova strategia che punti a offrire ai giocatori ciò che vogliono davvero, magari riprendendo tutte quelle serie del passato che sono state dimenticate da tempo. Non bastano i remake, seppur graditi ma fermi al palo da diversi anni a questa parte, come quelli di Prince of Persia: Le Sabbie del Tempo e di Splinter Cell, oppure un nuovo Rayman la cui pre-produzione è appena cominciata. Serve il coraggio di riappropriarsi di quella spinta creativa che portò Ubisoft sulla cresta dell’onda fino a una decina di anni fa, tra progetti sperimentali e volontà di innovare anche all’interno di serie consolidate. Ma bisogna farlo presto, perché basta poco per finire gambe all’aria.

 

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