Obiettivi di successo impossibili per giochi che non sono campioni, ma a cui non viene neanche data la vera possibilità di diventarlo. Che è un po’ la storia di Timesplitters e di Alone in the Dark.
Con tutte le chiusure e i progetti cancellati che ci sono stati negli ultimi anni è improbabile che qualcuna non sia andata a toccare qualcosa a cui eravamo appassionati. Fortunatamente bazzico poco nel mondo dei tripla A, preferendo decisamente esperienze più indie, che possono prendersi più rischi e non devono rispondere di obiettivi di vendita non corrisposti (o assurdi). Ma la tempesta non ha risparmiato qualcosa a cui tenevo, quindi un po’ per writing therapy, un po’ per omaggiare i caduti meno noti, ho deciso di parlare di due studi per i quali ho accusato un colpo particolare: non soltanto la delusione di vedere uno studio chiudere, ma l’amarezza di vedere dissolversi con esso titoli a cui ero affezionato. Senza nulla togliere a casi eclatanti e da sincero mal di testa come quello di Tango Gameworks, la lezione che dobbiamo trarre da questo periodo è che nessuno studio è al sicuro, né se è acclamato dai suoi stessi produttori come punta di diamante, né tantomeno se stiamo parlando di giochi soltanto, umilmente, “ok”.
LA SFORTUNA DI PIECES INTERACTIVE
Non conoscevo molto Pieces Interactive, ma caso vuole che gli sia capitato in mano un franchise che invece ho seguito bene. Guardo il loro portfolio e vedo nomi a me sconosciuti come Titan Quest e Magicka e mi domando cosa c’entrino non dico con Alone in the Dark nello specifico, ma proprio con i survival horror in generale. Ma questo studio faceva parte del gruppo Embracer e quando si partecipa a realtà produttive così grandi non sempre c’è libertà di dedicarsi ai progetti che si vuole. Un tentativo di revival del franchise di Alone in the Dark era in programma, e Pieces Interactive ha più o meno di buon grado accolto la sfida. Con risultati che, sinceramente, ho apprezzato. Ho apprezzato il loro sforzo di far rinascere quello che per molti versi è il precursore del survival horror contemporaneo. Purtroppo questo è anche un caso di gioco che fa da capofila e che poi non riesce mai più a riprendere tale ruolo, pur provandoci in molti modi. A volte anche molto arditi.
Inoltre, concordo che l’Alone in the Dark di Pieces Interactive fosse un gioco “ok”. Non poteva, nè quasi sicuramente voleva, competere con l’ambizione di Alan Wake 2, non era un rilancio di franchise transmediale come quello di Silent Hill, non aveva l’esperienza ultradecennale di Capcom (e questo è un punto su cui vale la pena tornare). Era un gioco esplorativo. Un gioco che voleva capire se Alone in the Dark aveva ancora un pubblico e il materiale con cui voleva farlo è un recupero dell’atmosfera originale. Abbandonati imbarazzanti esperimenti third person shooter, abbandonate le ambizioni da kolossal cinematografico, abbandonato anche il lungo trench e i tamarri revolver di Alone in the Dark: The New Nightmare, si torna negli anni ’20 con persone normali. Dove per normali intendiamo meno “da fumetto”, ma non prive dei loro segreti. Il tentativo di agganciarsi a un’esperienza cinematografica rimane, i nostri due protagonisti hanno le fattezze prestate da David Harbour e Jodie Comer. Ma a parte questo l’esperienza generale rimane bucolica, chiusa a Villa Derceto e in strani spazi onirici. L’inventario è convenzionale, come nel gioco originale il gioco si propone con una doppia campagna e come nel gioco originale suona più come un “selettore personaggio” che altro. Vero che le cutscenes sono diverse, vero che c’è un capitolo esclusivo a seconda del protagonista scelto, vero che i dialoghi cambiano, però le armi sono (quasi tutte) le stesse, gli scenari sono gli stessi, l’edificio non è grandissimo e ne visitiamo le stesse parti. Non c’è una vera ricerca di storie incrociate come nel recente Alan Wake 2, siamo più sulla linea del primissimo Resident Evil o appunto, del primo Alone in the Dark.
Insomma, un gioco che non eccelleva, non era sperimentale e non ha raggiunto gli obiettivi di vendita. Per qualcuno questo è stato sufficiente a chiudere definitivamente lo studio. Questa è l’industria in cui ci troviamo. Un sistema che però sta agendo contro sé stesso, perché ora Alone in the Dark lo abbiamo perso (per sempre?). Quanto è probabile che Embracer ci riprovi affidandolo a un altro studio, che dovrà ancora una volta ripartire da zero e con la reputazione del franchise ancora più compromessa? Pieces Interactive, al netto di sbavature, aveva creato una buona base. Una traccia artistica riconoscibile, dei personaggi ben interpretati, qualcosa su cui forse era possibile costruire ulteriormente facendo tesoro dell’esperienza. Di certo la qualità complessiva era salita rispetto agli ultimi due tentativi del franchise e avrei visto volentieri una reinterpretazione anche del secondo e terzo capitolo. Poi, con 2-3 giochi alle spalle avremmo davvero potuto comprendere se l’interesse per il franchise era cresciuto, diminuito o se addirittura è quel tipo di progetto con la coda lunga che diventa famoso con il tempo. O se invece con questo franchise non è proprio cosa.
Ma a quanto pare Embracer voleva altro. Forse voleva un gioco in grado di tenere testa ai grandi big dell’industria. Franchise che però erano stati più presenti negli anni, che erano in contatto con studi già a loro agio con i survival horror e che già avevano una fanbase ben motivata ad aspettare il successivo capitolo. Alone in the Dark sarebbe riuscito a recuperare la trazione di un Silent Hill, un Resident Evil, un gioco del Remedyverse? Non lo sappiamo e ad essere onesti, non credo. Ma non credo nemmeno che una tale valutazione si possa fare a suon di reboot costanti e non avrei di certo staccato la spina a questo progetto dopo un solo gioco, figurarsi all’intero studio. Data questa situazione, penso che vedere altri Alone in the Dark sarà tra l’improbabile e l’impossibile. Mi dispiace Pieces Interactive, lo so che ci hai davvero provato. A me il gioco è piaciuto.
IL FUTURO PERDUTO DI FREE RADICAL
Free Radical non ha mai davvero sfondato, ma aveva senz’altro una firma artistica propria in un panorama di FPS che nei primi anni 2000 non era vasto come quello odierno. Timesplitters faceva ridere, ma di gusto. Era una serie che sapeva captare i maggiori cliché del genere e tradurli in uno stile fumettoso, arcade, autoironico, laddove i viaggi nel tempo sono un escamotage per portarci dal Far West alla fantascienza di Terminator, passando per improbabili trame di spionaggio, con conseguente cambio di armi e soundtrack, ora western, ora techno, ora misteriose. Timesplitters arriva al secondo capitolo, poi Free Radical decide di buttarsi in un esperimento ambizioso, negli anni in cui l’idea di “videogioco con l’ambizione di un film” stava testando nuovi confini. Suo contemporaneo era Metal Gear Solid 3: Snake Eater, il Fahrenheit di Quantic Dream sarebbe arrivato l’anno dopo.
Second Sight, pubblicato nel 2004 con Codemasters, era uno stealth con poteri psichici. L’inizio è superclassico: il nostro protagonista, tale John Vattic, si sveglia ferito, seminudo, rasato, su un lettino in una stanza con equipaggiamento medico. Nel tentativo di uscire scopre che la sola imposizione della mano è sufficiente per manipolare l’interruttore dall’altro lato. La telecinesi avrebbe permesso di girare le telecamere dall’altra parte, muovere piccoli oggetti e ovviamente fare il numero alla Star Wars dopo un certo punto, pigliando i cattivi per il collo a distanza. Era inoltre possibile lanciare sfere di energia cinetica, possedere corpi altrui e infine diventare “invisibili”. Tra virgolette perché in realtà si trattava di un’ipnosi che convinceva i presenti di non vederci, non utilizzabile in caso di allerta e inutile per eludere dispositivi elettronici. La storia si dipanava in due momenti temporali differenti, ciascuno che chiariva pezzetti del mistero dell’altro.
LO STILE TIPICO DI FREE RADICAL SI ADATTAVA BENE ANCHE A UNA STORIA SERIA COME QUELLA DI SECOND SIGHT
Non un successone di pubblico, ma diventato rapidamente un piccolo cult, Second Sight permette a Free Radical di alzare l’ambizione. L’anno successivo arriva l’acclamato Timesplitters: Future Perfect prodotto con Electronic Arts, che non fa che consolidare l’ottimismo dello studio. Il gioco è notevole, dissacrante, divertente, e riesce a capitalizzare su tutti i punti migliori dei giochi precedenti, nonché a migliorarsi dal punto di vista tecnologico e di animazioni. È il momento di alzare la posta e provare il kolossal. Il loro successivo gioco uscito nel 2008, Haze, diventò esclusiva Playstation 3 co-prodotta con Ubisoft e prometteva di lavorare su temi complessi quali guerra e comunicazione manipolativa con uno stile realistico e maturo. Fu un assoluto disastro.
USCITO IN CONCORRENZA CON RESISTANCE E KILLZONE, HAZE FU UN ASSOLUTO DISASTRO
Fino a quando, nel 2021, Embracer Group non decise di rifondare lo studio tentando di portare a bordo almeno alcuni degli sviluppatori originali, tra cui i fondatori Steve Ellis e David Doak. L’obiettivo era di riportare in vita nientemeno che l’opera originale dello studio: Timesplitters. Un sogno durato poco. Complice il dover riformare lo studio, il dover capire come revitalizzare un franchise rimasto dormiente per 15 anni e un momento dell’industria dei videogiochi che come ben sappiamo non era fra i migliori, i tempi di lavorazione si allungarono anche a causa di risultati in divenire non soddisfacenti.
IL TENTATIVO DI RILANCIARE TIMESPLITTERS NON EBBE UNA VITA FORTUNATA
Ma questo è. È importante ricordare che al netto di eccezioni di benevolenza/totale disinteresse del produttore, nel momento in cui uno studio chiude, questo solitamente non mantiene alcun diritto sulla proprietà intellettuali a cui ha lavorato. Non è solo il passato che perdiamo (Second Sight è perlomeno giocabile su PC tramite Steam e GOG, ma Timesplitters è attualmente perduto nel tempo), ma il potenziale futuro dello studio. Eredità culturali che rischiano letteralmente di restare dimenticate in magazzino. Io non faccio nessun salto di gioia quando sento di studi indipendenti acquisiti da un grande produttore. Auguro piuttosto ogni fortuna a chi si trova in questa situazione.
Questo articolo è stato scritto per The Games Machine da Frequenza Critica, il blog italiano di approfondimento videoludico.