Ron Gilbert, Monkey Island e il mondo all'ingiù

Alla fine della fiera qualcuno è riuscito ad utilizzare i social per farsi eleggere alla Casa Bianca. Figurati quanto possa essere difficile usarli per cose banali come ripulirsi l’immagine, vendere giochini o rovinare la giornata a uno sviluppatore. Anche quando questo sviluppatore è una leggenda come Ron Gilbert, creatore di Monkey Island.

monkey island

In questa storiaccia di utenza forcaiola pronta a stroncare Return to Monkey Island dopo due trailer perché non è in pixel art, il solito editorialino dove si dà ragione a Ron Gilbert non è un atto virtuoso. È semplicemente la base di quella che dovrebbe essere la normalità all’interno della critica di settore, non l’occasione per fare virtue signalling verso sé stessi. È chiaro che Ron Gilbert abbia ragione a decidere di non confrontarsi più con i giocatori fino alla release del gioco. È chiaro che per questo possiamo solo biasimare noi giocatori, non la decisione. Ma è altrettanto chiaro che noi giocatori in altre situazioni simili non abbiamo dimostrato la stessa arroganza – la stessa ferocia – nei confronti del videogioco di turno reo di aver deluso le nostre aspettative.

IL DIAVOLO STA NEI DETTAGLI (E NELLE LOOT BOX)

Esattamente un mese fa usciva Diablo Immortal. Un titolo nato nell’odio, visto che alla BlizzCon 2018 era stato annunciato tra i fischi come un’esclusiva mobile e la risposta del Game Director Wyatt Cheng alla reazione (“ma non avete un telefono?”) è tuttora meme. Quattro anni – e ok, una versione PC – dopo Diablo Immortal è uscito incarnando tutto quello che non va nell’industria di oggi. Cioè, è uscito ovunque tranne in Belgio e Olanda, dove la normativa sulle Loot Box impedisce al titolo di arrivare nei marketplace. Con buona ragione, visto che si stima una spesa attorno ai 500mila euro per poter ottenere il miglior equipaggiamento per il proprio personaggio. Eppure la condanna non è stata così unanime come si potrebbe pensare, visto che stiamo parlando di uno dei pilastri del gaming su PC trasformato in un Free to Play disposto a tutto pur di fare cassa, quasi un Bobby Kotick per iOS e Android. “Tutto sommato il gioco si può giocare anche gratis fino all’endgame”. “Basta sapersi regolare”. “Se qualcuno ci finisce sotto è colpa sua”. Siamo stati disposti a vedere del buono perfino in qualcosa che ripetiamo odiare da anni, perché i fischi della BlizzCon 2018 erano i fischi di chi si ritiene in cima alla catena alimentare e deve il gaming su mobile come una minaccia al suo stile di vita.




Qualcuno potrebbe obiettare che, in fondo, la critica a Diablo Immortal sia più che altro ideologica. È il mercato, baby, e dopotutto al netto del modello economico stiamo parlando di un titolo di pregio, con una formula rodata e delle meccaniche che ci accompagnano dal 1996. Stessimo parlando di una truffa in piena regola, di un titolo venduto a 70€ che non si avvia sulle console in edizione limitata brandizzate in occasione del rilascio, sarebbe tutt’altra storia. Un’onta del genere non potrebbe essere nemmeno lavata con il sangue. Come potremmo dimenticare o anche solo perdonare una cosa del genere? Basta evidentemente chiederlo a CD Projekt RED, che nell’intervallo di tempo tra il 10 dicembre 2020 e qualche giorno fa è riuscita a ribaltare completamente l’immagine del suo più grande disastro.

È INCREDIBILE COME CD PROJEKT RED SIA RIUSCITA A RIBALTARE LA PERCEZIONE DI CYBERPUNK 2077 E A FARNE DIMENTICARE I DIFETTI

Cyberpunk 2077 si era presentato con qualche giustificazione in tasca già al suo esordio sugli scaffali. Non si avvia su PS4 e Xbox One, ma siamo disposti a rimborsarvi. È un gioco grezzo e pieno di problemi, ma Night City è enorme, lo skill tree è immenso e il mondo pieno di possibilità. Sotto la coltre di bug c’è un gran titolo, si intravede quella rivoluzione che CD Projekt Red ci ha promesso più volte ed era lecito aspettarsi dai creatori di The Witcher 3 – che ad oggi è ancora il titolo del sito web ufficiale del gioco. Viene fuori che no, sotto la coltre di bug c’è un videogioco che ha diverse storture a livello di design, qualcuna addirittura ammessa in modo postumo da CD Projekt RED – perché se lo skill tree è stato sfrondato in occasione della “patch finale” 1.5 evidentemente prima era pieno di voci inutili messe li solo per far volume. Non si può parlare di bachi quando la critica è che di cyberpunk su disco c’è poco più della riduzione multinazionali uguale male comunicata tra l’altro da una multinazionale che ha costruito il suo videogioco sul sacrificio dei suoi dipendenti. Eppure non solo queste mancanze sono state marginalizzate parlando solo dei bug, ma addirittura la patch 1.5 (con conseguente uscita sulle console di nona generazione) è stata salutata come un trattato di pace tra il pubblico e quella che fino al 9 dicembre 2020 era per tutti la Software House della gente, quella che vende i giochi DRM-Free sul suo store e confeziona espansioni, non DLC. Negli scorsi giorni ha iniziato a circolare un report che imputava tutte le magagne tecniche del day one alla società che si era occupata del Q/A di Cyberpunk 2077. È diventata l’occasione perfetta per dimenticare tutte le voci che sostenevano il contrario, quella di Jason Schreier in testa.

Johnny Silverhand è effettivamente un nome da temibile pirata.

E quindi da una parte abbiamo Ron Gilbert, di ritorno sulla serie che lo ha reso famoso dopo 30 anni di esilio e deciso a svelarci finalmente il segreto di Monkey Island. Dall’altra il più becero opportunismo, l’uso dei propri marchi e dei propri canali di comunicazione per ribaltare il risultato in perfetto stile Alessandro Borghese – con cui Blizzard e CD Projekt RED probabilmente condividono anche il punto di vista sulle paghe dei dipendenti. Messi di nuovo davanti alla scelta tra Gesù e Barabba abbiamo dato il nostro peggio: perché in fondo è meglio un loft in una Night City svuotata di tutto pur di poter girare su PS4, di una Monkey Island senza pixel art che osa pure essere esclusiva temporale Switch (solo per quanto riguarda il mercato console, non PC; ndR).

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