Vivere mondi “tridimensionali" - Speciale

Poche settimane fa un videogioco mi ha fatto provare emozioni violente, di quelle che risvegliano sensazioni inaspettate e, sinceramente, ancora non riesco a togliermelo dalla testa. Mi tormenta perché vorrei saperne di più, vorrei andare oltre i suoi confini programmati, scavalcarne il codice per esplorare qualcosa che non esiste, che non è stato scritto, ma che sembra così a portata di mano.

Season: A Letter to the Future

Season: A Letter to the Future.

Quel gioco è Season: A Letter to the Future di Scavenger Studio, recensito su queste pagine da quel grande cuore giallorosso di Gabriele, che vi invito caldamente a leggere in caso ve la foste persa. Un’opera che mi ha colpito fortissimo, tanto a livello emotivo quanto a livello di consapevolezza videoludica, tanto da spingermi a scrivere questo speciale e pormi una domanda: cosa rende un mondo “tridimensionale”? Non a livello estetico, di mera realizzazione 3D, ma vivo, “vero”, persistente. Un’illusione, un sogno lucido, un’escursione virtuale. Un mondo che esiste per raccontare, non per essere solo un contenitore (i “sandbox” vanno benissimo per quello che fanno eh, ma non sono quello su cui mi sto concentrando), per essere vissuto appunto, oltre il “gioco”, in tutto e per tutto.

VIVERE MONDI “TRIDIMENSIONALI”

Penso che innanzitutto questo mondo debba avere un passato, e che questo passato abbia bisogno di emergere qua e là. Nei ricordi di un NPC, in una fotografia, attraverso monumenti e rovine. Una Storia la cui eco si trasforma in memoria, un sasso lanciato in acqua con le onde che si propagano verso la riva, verso di noi. Adesso: Season è un’opera totalmente strutturata attorno a questo concetto e lo esprime in maniera grandiosa, entrando sottopelle e coinvolgendo tutti i sensi, nonostante le dimensioni limitate, ma è anche un esempio di partenza perfetto; ogni luogo, ogni passo, ogni parola è un mattone di world building costruito in tempo reale attorno al giocatore.

Per risultare credibile, un mondo abbisogna di un passato che emerga qua e là, nei ricordi di un NPC, in una fotografia, attraverso monumenti e rovine

Narrativa diretta, emergente, direzione artistica e sound design, tutto affluisce in un grande fiume di informazioni che continua a scorrere. E allora capita di essere in bici per le strade di un’ormai quasi totalmente disabitata Tieng Valley, mentre il sole comincia a calare e l’aria a diventare più fresca, e ci si ritrova davanti un distributore di benzina, nel cui parcheggio sono adagiati, ognuno sul proprio tappeto, dei soldati addormentati, sprofondati in un sonno senza fine. Qui però non parte una vera e propria spiegazione, fatta e finita, ma la si trova collegando i puntini di altri indizi mentali raccolti mentre si scattano foto e si registrano suoni. È questa sapiente semina di informazioni che stimola la curiosità, coltivando il mistero e rendendo il tutto estremamente organico.

IL POTERE DELLA SUGGESTIONE

Un modo di fare world building portato alla ribalta soprattutto da Fumito Ueda nelle sue opere, tanto ermetiche quanto affascinanti proprio perché, sotto la fiaba che raccontano, nascondono un passato magnetico, inafferrabile e mai esplicitato. La sensazione che personalmente mi trasmettono i suoi lavori è quella di stare vivendo una storia che, nei secoli, verrà poi tramandata di padre in figlio. Ed esattamente come una storia viene tramandata Ico, Shadow of the Colossus e The Last Guardian sono riusciti a riunire intere community attorno al fuoco di internet, tra teorie, dettagli scoperti dopo anni dalla pubblicazione e data mining (famosissimo il caso di Shadow of the Colossus e dei colossi “segreti” scartati nella versione definitiva).

Shadow of the Colossus

Shadow of the Colossus.

Questo è un altro modo di dare solidità ai propri mondi, che spesso sembrano nascondere molto più di quello che in realtà c’è, dando vita a delle cacce al tesoro che si sa già non porteranno a nulla ma assumono comunque contorni quasi esoterici, avvicinando un sacco di persone e trasformandosi poi in decine di teorie da forum e video su YouTube. Esattamente come è accaduto negli ultimi anni con le opere From Software, con Hidetaka Miyazaki chiaramente e dichiaratamente influenzato dai lavori di Ueda, che hanno riportato in auge un discorso per me molto intrigante e che si potrebbe riassumere con una tesi ambigua; non conta se il mistero porta o meno a qualcosa di definito e tangibile, l’importante è far credere che qualcosa ci sia. Game design conturbante in tutta la sua purezza.

Non conta se il mistero porta o meno a qualcosa di definito e tangibile, l’importante è far credere che qualcosa ci sia

Giocare con la mente di chi si immerge in un’opera videoludica, lasciando che il cervello crei parte del mondo, è una tecnica raffinatissima che solo i grandissimi riescono a gestire, anche se il dibattito su quanto sia “furba” non troverà mai una soluzione probabilmente. Questo lascia anche una certa libertà all’indole di ogni singolo giocatore, tra chi trova i loro mondi delle bellissime scenografie sullo sfondo di un gameplay senza soluzione di continuità (quasi arcade per certi versi) e chi invece vuole esplorarli a un livello più cerebrale, portandone alla luce la complessa mitologia.

SPAZI INCONTAMINATI

Esistono anche affascinanti vie di mezzo, capaci di lasciare grande libertà di speculazione essendo comunque sorretti da una narrativa quadrata, dai confini ben delineati. Due esclusive Nintendo come The Legend of Zelda: Breath of the Wild e Xenoblade Chronicles X tratteggiano mondi prevalentemente naturali, dove l’opera umana è in rovina, con qualche sacca di civiltà qua e là (questo Zelda è un episodio dallo spirito post-apocalittico), o non si è ancora sviluppata (nello Xenoblade “apocrifo” gli umani atterrano su Mira, un pianeta alieno misterioso, dopo essere fuggiti dalla Terra).

The Legend of Zelda: Breath of the Wild

The Legend of Zelda: Breath of the Wild.

In Zelda il ricordo torna ed essere un concetto importantissimo, la stessa narrazione procede spesso attraverso i ricordi di Link, mentre il giocatore esplora una Hyrule per lo più desolata, malinconica ma non meno rigogliosa e piena di vita, storie, esperienze uniche che semplicemente succedono perché ci si ritrova nel posto giusto al momento giusto, trasmettendo la sensazione di stare vivendo un’avventura epica ma attraverso una progressione sussurrata, mai invadente o troppo esplicita. Lo scopo è quello di dare al giocatore la possibilità di costruirsi la propria, personale e intima, esperienza di eroe, non come una cavalcata trionfale ma come una meravigliosa fatica.

Esistono anche affascinanti vie di mezzo, capaci di lasciare grande libertà di speculazione essendo comunque sorretti da una narrativa quadrata

Il gioco Monolith invece, nella sua natura pre-coloniale ci vede come esploratori “vergini” in un ecosistema dal design pazzesco, impossibile, capace di intimorire ed eccitare, con l’obiettivo di mapparlo e raccogliere informazioni fondamentali, partendo per vere e proprie spedizioni in un “nuovo mondo”. La città/arca Neo Los Angeles funziona invece da ancora, unico collegamento ad una vita terrestre ormai abbandonata senza ritorno, instillando nel giocatore un ricordo fasullo che esalta la sensazione di essere esuli in pericolo, perseguitati, cacciati da predatori famelici. La scala del mondo è però quello che più di tutti fa sentire “presenti”, piccolissimi a piedi, dominatori a bordo degli Skell, che grazie alla possibilità di volare portano l’esplorazione su tutt’altro piano, vivendo così tanto il micro quanto il macro.

WORLD BUILDING TRA REALISMO E NUOVA NARRATIVA VIDEOLUDICA

Il senso di scala e la gestione degli spazi diventa però imprescindibile se si vuole virare pesantemente sul realismo. E forse il miglior esempio di un mondo realistico, che non solo ha un passato e una Storia ma che sembra esistere indipendentemente delle azioni del giocatore, è Red Dead Redemption 2. Rockstar ha fatto una scelta coraggiosa e dalla resa finale straordinaria per la sua opera: decidere di raccontare la quotidianità di un fuorilegge, decidendo di osservarne più l’intimità che le imprese, il suo essere ormai quasi fuori luogo in un’America ormai irrimediabilmente industrializzata e sulla strada di un progresso che sarà poi fulminante, descrivendo un personaggio (e la sua carovana) ormai irrilevante, l’esatto contrario di un eroe destinato a cambiare il mondo. Persone che si ostinano a vivere libere, nomadi, sprezzanti dell’autorità, tanto nostalgiche quanto ancora immerse in un presente di violenza, da affrontare alla giornata.

Red Dead Redemption 2

Red Dead Redemption 2.

Tutto il world building è quindi pensato per raccontare questi contrasti e far vestire al giocatore i panni di un personaggio che più che spiccare si mescola in questo calderone di nuovi imprenditori e vecchi delinquenti, tra chi cerca di fare i suoi interessi coi soldi e chi col piombo, mentre intorno la routine brulica; i saloon sono pieni di lavoratori ubriachi, attaccabrighe e prostitute, i mandriani lavorano la loro terra, gli operai si aggirano per le strade fangose delle grandi città con la faccia sporca, i cabaret danno spettacoli a tutte le ore e i barbieri rendono più presentabile anche un disgraziato. Uno spaccato di umanità così credibile da lasciare sbalorditi. Quello che stupisce è la naturalezza e l’organicità con cui quotidianità (anche audiovisiva) e narrazione procedono, simulando la vita, i ritmi, la fatica, rendendo l’opera orgogliosamente anti-climatica, lenta, magari anche difficile da godere se non si è ben disposti, eppure clamorosamente avvolgente, vera e straziante.

Stupisce la naturalezza e l’organicità con cui quotidianità e narrazione procedono simulando la vita, rendendo l’opera orgogliosamente anti-climatica, difficile da godere se non si è ben disposti

Le storie personali che si mescolano alla Storia ed elevano il videogioco a qualcosa di culturalmente rilevante, per ricostruzione e modo di utilizzare l’interazione a fini narrativi, un po’ quello che è successo anche col recentissimo Pentiment, in tutt’altro genere e con tutt’altro budget, ma con simili risultati ludo-artistici, oppure con altri pezzi da 90 come The Witcher 3 o Death Stranding, altri splendenti esempi di costruzione ludo-narrativa.

Death Stranding Director's Cut Recensione

Death Stranding Director’s Cut.

L’evoluzione dell’industria ha portato negli ultimi anni ad una presa di coscienza forte sulle potenzialità espressive del videogioco, facendo finalmente quello step ulteriore che serviva come l’aria. Affiancando ai contenuti il dettaglio, una scrittura sempre più personale, su misura, per adattarsi ai ritmi dei giochi e non semplicemente pensata “in due dimensioni” per poi essere tagliata e incollata dove serve. Visto che è tornato sulla bocca di tutti recentemente, basta guardare il gap che c’è tra il modo di raccontarsi del primo The Last of Us e del secondo capitolo, laddove il primo rappresentava certamente un traguardo per la sua generazione, traguardo che però è stato spostato chilometri più avanti 7 anni dopo, tanto grazie alla tecnologia quanto ad una consapevolezza del medium ancora più forte, con il ruolo del world building approfondito ed esaltato.

L’evoluzione dell’industria ha portato negli ultimi anni ad una presa di coscienza forte sulle potenzialità espressive del videogioco

Oggi non è più responsabilità quasi unica delle scene di intermezzo (parlando per iperboli) portare avanti un racconto, ma questa incombenza viene condivisa da tutti gli elementi del gioco, dal gameplay fino alla direzione artistica, tutto sorretto da una scrittura “tridimensionale”, che non si preoccupa solo di tracciare una linea retta tra il presente e il finale, verticalmente, ma che invece si espande in tutte le direzioni, rendendo il mondo di gioco qualcosa che starebbe in piedi anche senza la storia del suo protagonista, idealmente possibile da vivere in tutta la sua bellezza anche nei panni di un NPC. Poi chiaramente dipende tutto dagli obiettivi che uno studio di sviluppo ha, non tutti i giochi devono essere come quelli che ho citato finora, assolutamente, ma è giusto celebrare chi riesce a compiere un’illusione dal coefficiente di difficoltà così estremo, preziosa, galvanizzante e in qualche modo terapeutica come portarci per qualche ora in un altro posto, uno spazio pieno di volti, culture, parole, panorami e sensazioni; non mi piace la retorica dell’evasione dalla realtà, questo per me è puro, purissimo piacere da sovrapporre a essa, un piacere di cui solo il videogioco è capace.

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