Un po’ come nel classico The Wizard of Oz del 1939, Death Stranding ci chiede di varcare la porta ed entrare in un nuovo mondo, modificando la nostra percezione di quello che ci circonda. Ma se il capolavoro di Fleming Doroty abbandonava le tonalità seppia del Kansas per affacciarsi nella gloria del Technicolor, la dimensione elucubrata da Kojima abbraccia tinte più scure e grevi, catapultando da subito il protagonista Sam Porter sotto la pioggia battente, in un versione distopica dell’America fratturata e incapace di rialzarsi. La colpa è del Death Stranding, una serie di avvenimenti paranormali che hanno portato l’uomo a ripensare completamente tutte le nozioni accumulate nei secoli riguardanti l’esistenza e la morte, fino ad allora appannaggio di filosofia e religione. Le carte in tavola cambiano con l’arrivo delle CA (Creature Arenate), entità ultraterrene che giungono nel nostro piano d’esistenza cercando ossessivamente un contatto con i vivi; quando questo accade è solitamente una brutta notizia, perché la sovrapposizione tra le due realtà genera violente esplosioni di antimateria che lasciano dietro solo crateri fumanti. Se tutto questo non fosse sufficiente, il loro arrivo è accompagnato dalle cronopioggie, violente precipitazioni capaci di accelerare l’invecchiamento di ogni cosa che bagnano, goccia dopo goccia. In un simile panorama da incubo gli Stati Uniti non esistono più, sostituiti da una manciata di città scollegate tra di loro che costituiscono la nuova e disorganica entità politica chiamata UCA (United Cities of America).
ORA GUARISCI IL MONDO, COME HAI FATTO CON ME
Colmare le distanze e riunire quel che resta della razza umana è il sogno anelato da Bridget Strand, presidentessa delle UCA che si trova sul letto di morte. Il compito, dunque, ricade sulle spalle della figlia Amelie, prossima leader designata e carismatica idealista, desiderosa di portare avanti la visione della madre. Come spesso accade, però, le cose non vanno sempre per il verso giusto: dopo aver attraversato l’America da est a ovest cercando di riunire i sopravvissuti sotto un comune stendardo, Amelie viene rapita da un forza militare separatista e tenuta come ostaggio nella lontana Edge Knot City, come misura di sicurezza contro gli scomodi ideali della UCA. Il deus ex machina della situazione è Sam Porter Bridges, un uomo che condivide un particolare legame con Bridget e Amelie: è un trasportatore leggendario che non fallisce mai una spedizione, che si tratti di consegnare provviste in un avamposto inaccessibile oppure di caricarsi in spalla un cadavere e portarlo al più vicino inceneritore, impedendo che l’abbraccio delle CA scateni un nuovo cratere.
Lo storytelling e la sekaikan di Death Stranding sono il fiore all’occhiello di un’opera che riesce a creare un mondo di gioco bizzarro, opprimente ma allo stesso tempo credibile
Non mento affatto affermando che la trama di Death Stranding riesce ad essere interessante ben oltre i titoli di coda (quando ci arriverete capirete), mentre la posta in gioco rimane sempre importante e duplice, rappresentata dall’utopica unione di un popolo sparso ai quattro venti e dal personaggio di Amelie, idealizzata e raggiante con il suo abito rosso in un mondo nero pece. Mi sbilancio: la vicenda e i personaggi immaginati da Kojima e disegnati dal compagno di avventura Yoji Shinkawa sono così potenti e interessanti da mantenere alta l’attenzione per tutta l’avventura, facendo chiudere un occhio su alcuni peccati di cui Death Stranding si macchia ineluttabilmente.
IL DURO LAVORO DEL CORRIERE
Se i tosti connotati di Norman Reedus non vi hanno messo sulla strada giusta, sappiate che Sam è un uomo d’azione, capace di trasportare i carichi più disparati in ogni circostanza. Una dote che gli sarà dannatamente utile, perché il viaggio coast to coast che porta a Edge Knot City passerà attraverso un’America restituita alla natura dopo le calamità succedute al Death Stranding. Trovare il punto giusto per guadare un fiume o superare un pericoloso burrone saranno problemi all’ordine del giorno, ma è importante non perdere di vista lo scopo principale della missione di Sam.
Messa da parte la bella principessa da salvare, l’ideologia di fondo del viaggio è quella di riunire città e avamposti, una prospettiva nobile che porterà anche vantaggi concreti: ogni nucleo annesso alle UCA espanderà la cosiddetta Rete Chirale, un network che – tra le altre cose – permetterà a Sam di creare nuove attrezzature con cui facilitare la missione. Scale e chiodi da cordata garantiranno un passaggio agevole in barba ai pericoli menzionati qualche riga fa, mentre investire massicce quantità di materiali nella costruzione di strade e rifugi faciliterà enormemente il viaggio.
Death Stranding è uno dei titoli più facili che abbia provato negli ultimi anni, e vedere la schermata di game over si è rivelata un’impresa davvero ardua
TI ASPETTERÒ SULLA SPIAGGIA
Spero vi piaccia la prospettiva di osservare il sedere di Reedus per diverse ore, perché in Death Stranding farete principalmente questo. Oh certo, ci sarà la possibilità di salire in sella a moto o di mettersi al volante di furgoni con cui trasportare merci ingombranti e giocare al piccolo corriere SDA, ma durante la stragrande maggioranza del gioco dovrete farvela a piedi, complice anche la conformazione ostile del territorio, generalmente avversa al trasporto gommato. Ottimizzare il carico è dunque importante, perché il baricentro di Sam assume un ruolo vitale quando si tratta di attraversare terreni accidentali ed è facile capitombolare a terra, contribuendo al deterioramento del carico che, se butta male, dovrà anche fare i conti con gli effetti logoranti della cronopioggia. In altre parole, passerete tantissimo tempo giocando con i pulsanti dorsali per spostare il peso da una parte all’altra, mantenendo l’equilibrio durante il guado di specchi d’acqua o affrontando salite e discese particolarmente ripide. Intrigante all’inizio, un po’ monotono andando avanti, anche perché la varietà non è proprio il punto di forza del gioco: si raggiunge una nuova locazione, la si annette alla rete chirale, si accetta la missione successiva e si parte, tenendo in equilibrio pacchi di varia natura fino alla nuova destinazione, il tutto per ricominciare d’accapo.
Tra partenza e arrivo, oltre alle ovvie asperità del terreno, figurano eventuali incontri con le CA e con i Muli, veri e propri predoni con la fissa per i carichi altrui. No, non chiedetemi nulla, è una storia lunga e strana che vi verrà spiegata tramite intel. Contro costoro è inizialmente bene girare alla larga perché – almeno durante le prime battute – i loro scanner saranno in grado di localizzare la posizione di Sam; tuttavia, andando avanti, sarà possibile assumere un approccio furtivo, tramortendo alle spalle i malcapitati o mandandoli a nanna grazie al supporto di armi. Rigorosamente non letali, occhio, perché il rischio che diventino successivamente cibo per CA è comunque in agguato, e quando questo accade non resta altro che far riemergere Sam dall’Abisso (una sorta di purgatorio subacqueo in prima persona a cui si accede ad ogni dipartita) e caricare un salvataggio precedente.
Contro le CA il discorso si fa più delicato: il nerboruto protagonista le avverte ma non le può vedere, e il loro rilevamento è subordinato allo stato di salute del BB (Bridge Baby), ovvero il famoso neonato in vitro che oramai dovreste conoscere estremamente bene e su cui non ci divulgheremo eccessivamente, essendo un tassello fondamentale della trama. Vi basti sapere che i BB rappresentano il ponte ideale tra il regno dei vivi e quello dei morti, e consentono di visualizzare le sagome delle CA più vicine anche grazie a un bizzarro scanner orientabile, in modo da pianificare la strategia evasiva rimanendo in silenzio e sgattaiolando via al momento opportuno. Se le cose andassero male, l’avversario extraterreno proverà a ghermire Sam, spedendolo in una sorta di distorsione a metà tra i due mondi inondata da un caotico mare color pece, a tu per tu con una creatura extra large formata da antimateria e cattivo carattere, una combinazione davvero sgradevole e pronta a scatenare un’irreparabile esplosione.
Alla stregua di un’opera di Jirō Taniguchi, Death Stranding potrebbe davvero insegnarvi nuovamente a camminare
LA MAGIA DEL GRANDE SCHERMO
Tecnicamente Death Stranding è davvero stupendo, e si presenta sui nostri schermi evolvendo e sfruttando il Decima Engine in maniera strepitosa, mostrando paesaggi suggestivi e volti incredibilmente espressivi. Sulla PS4 PRO usata in sede di recensione non ho avvisato il minimo calo di fluidità, ma non si tratta solo di forza bruta, giacché il primo lavoro indipendente di Kojima Productions si regge in piedi saldo come una roccia grazie a una direzione artistica che non teme rivali, presentando un lavoro dall’indiscutibile impatto visivo ed emotivo che trova il suo trionfo in un uso della regia e della fotografia destinato a togliere il fiato.
Death Stranding non è perfetto: a mio parere le incertezze elencate nel paragrafo precedente rischiano di banalizzare l’esperienza per una cerchia di giocatori particolarmente – e giustamente – esigenti, ma resta lapalissiano che, nel complesso, si tratta di un’esperienza esplosiva. È l’unione dei singoli elementi a diventare così potente, grazie a una cura per i particolari straordinaria che trova il punto più alto durante alcune scene memorabili, spaventose e toccanti, corroborate dalla recitazione dei talentuosi volti chiamati a prestare le fattezze ai tanti personaggi che si alterneranno durante lo sviluppo della storia; senza spoiler di sorta, ogni scena in cui entra in gioco il personaggio “interpretato” da Mads Mikkelsen merita la sua dose di applausi a scena aperta. Degno di menzione anche il sonoro, che affianca a un doppiaggio importante (supportato da una traduzione italiana inappuntabile, onore al merito) una colonna sonora dosata con saggezza e cuore, sfoderando malinconici brani della band islandese Low Roar in quei momenti in cui Sam può finalmente godersi meritati attimi di pace, attraversando paesaggi maestosi ed evocativi. Alla stregua di un’opera di Jirō Taniguchi, Death Stranding potrebbe davvero insegnarvi nuovamente a camminare, un traguardo non trascurabile nella sua apparente semplicità.
Ho amato Death Stranding per la somma delle sue parti, ma devo ammettere che verso la fine dell’avventura il gioco inizia a scricchiolare sotto una prevedibile verbosità e una certa monotonia, mentre lo sviluppo dell’intrigante trama viene un po’ tenuto in ostaggio da un ritmo che si concede qualche rallentamento di troppo, dovuto a forti dosi di backtracking. Al netto di questi difetti, tuttavia, ci troviamo davanti a un gioco caratterizzato da un valore di produzione altissimo e da una sekaikan di quelle che non si vedevano da anni, capace di stregare e spingerti a leggere ogni singolo stralcio di mail pur di conoscere qualcosa di più su un mondo tanto affascinante, popolato da una scuderia di attori virtuali di gran pregio. A conti fatti, assolutamente promosso.