La difficoltà come senso di percezione - Editoriale

Sono la persona più insicura su questo piccolo sasso spaziale che gravita attorno al Sole, eppure devo essere sincero, sono molto soddisfatto di quello che ho partorito durante la prova in sede di recensione di Wo Long: Fallen Dynasty, correndo ai ripari e correggendo il tiro di una prova precedentemente più breve e tramutata in una sorta di diario di viaggio. Se ancora non l’avete letta vi invito a farlo, non solo per regalare il solito click, ma per confrontarci – foss’anche per l’ennesima volta – sulla difficoltà dei videogiochi.

Nelle ultime produzioni, la difficoltà nei videogiochi è diventata elemento di forte dibattito, talune volte istruttivo, in modo da sviscerarne fuori discorsi sulla sua accessibilità come diretta fruizione all’interno della grammatica di gioco, altre volte invece come mero pretesto per innalzare un livello di sfida che la naturale progressione non richiederebbe.

Wo Long: Fallen Dinasty

E pensare che proprio nei primi giorni bagnati dallo spumante del 2023 vi parlavo in un editoriale di quei titoli che, comunque tra le mie preferenze, vengono etichettati come esperienze rilassanti. Dall’altra parte della medaglia c’è il classico dark side of the moon, con un abisso di riscoperta passione per i videogiochi che richiedono un approccio diverso al videogiocatore, quello della concentrazione, dell’assimilazione, del plasmarsi attorno una struttura ludica ben predisposta a una sfida di livello. Ricordo ancora diversi scambi di opinione nel parlare di Sifu, pazzesco titolo dei ragazzi di Sloclap che fa della difficoltà elevata la vera essenza e, per questo, ha persino stupito quando al suo interno sono spuntate diverse opzioni per definire l’impegno chiesto ai giocatori, allargando la sua accessibilità.

Diminuire la difficoltà in un gioco così, che basa la sua struttura ludica su di essa, è comunque un buon modo per aprirsi a più giocatori? Oppure viene meno al compito del titolo stesso? Per molti, la scelta di rendere Sifu un gioco più semplice appariva sensata, eppure il titolo di Sloclap, da qualunque parte lo si voglia prendere, non si può certo affrontare, percepire e godere con un livello di sfida al pari di un beat ‘em up classico, dandosi allo smashing button solo per arrivare ai titoli di coda.

videogiochi che richiedono un approccio diverso al videogiocatore, quello della concentrazione, dell’assimilazione

Allo stesso tempo, molti, tantissimi fruitori religiosi di soulslike e lontani seguaci di Rogue, di ogni declinazione e sviluppo, si aspettano da titoli siffatti il giusto bilanciamento, quasi come se uno degli organi vitali per lo sviluppo di queste tipologie di giochi, oggi ben solide anche sul mercato, sia la giusta evoluzione della difficoltà, con risultati altalenanti. Ricordo ancora oggi il terribile Dolmen, il buon Steelrising (seppur sbilanciatissimo) e anche l’ultimo Wo Long adempie a simili regole e obiettivi. Non solo una percentuale importante nel metro di giudizio su un’opera, ma anche uno specchio di confronto.

Messaggi, guide su internet e consigli vari, quello che per un videogiocatore può essere semplice, per altri è difficile. E poi io stesso, che alla mia prova con un Souls come Bloodborne buttai giù Amygdala al primo tentativo, sentendo addossi gli sguardi d’odio di alcuni conoscenti che, nonostante i tentativi e le morti, ancora non riuscivano a sconfiggere lo stesso boss. Fortuna? Bravura? Semplice allineamento di qualche astro? Chi lo sa, di sicuro è ancora terribilmente affascinante fermarsi ancora a discutere di un gioco per la sua difficoltà, come la applica ai suoi contenuti, come la bilancia nell’economia delle meccaniche.

Un po’ come in Matrix, con la legge sacra del piccolo bambino: piegare il cucchiaio è impossibile, mentre la cosa più logica è rendersi conto che siamo noi che ci pieghiamo e ci plasmiamo nuovamente come nuovi esseri, diveniamo novelli starchild a ogni avvio di un nuovo gioco che ci propone interessanti livelli di sfida. Emozioni da vivere e goderne fino all’ultimo sorso.

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