È da un po’ di tempo che rimugino su un editoriale del genere, e ho continuato a rimandarlo per quasi sei mesi. I motivi erano tanti, dal fatto che ho cominciato veramente a utilizzare questo piccolo spazio settimanale come un lettino virtuale di uno psicologo, arrivando al delicato argomento di discussione che mi son tenuto dentro per anni e anni. Ebbene, una serata all’insegna del puro amarcord in compagnia di Davide e altri disperati della redazione, qualche drammatica canzone dell’inizio 2000 rievocata per coronare i disastri amorosi del passato e una carriola di sospiri sui tempi che furono mi hanno dato la spinta giusta per fare un coming out “scomodo”. Nulla di cui vergognarsi con il senno di poi, ma certi discorsi continuano incredibilmente a bruciare dentro, anche dopo lustri.
Cerco di andare direttamente al nocciolo della questione, altrimenti rischio di scrivere pagine e pagine di inutile prefazione: tengo particolarmente al videogioco come media non solo perché possiedo fantastici ricordi della mia infanzia e adolescenza, perché mi ha accompagnato durante le fasi più cruciali della mia crescita o semplicemente perché mi piace sparare con fucili al plasma in chissà quale pianeta alieno, ma perché i videogame mi hanno aiutato a superare uno dei momenti più neri della mia vita.
Senza ammorbarvi troppo con dettagli che probabilmente nemmeno mi interessano, sappiate che a causa di un momento difficile, unito a un paio di esami universitari che non volevano assolutamente saperne di darmi tregua, mi ero pericolosamente avvicinato alla depressione. Quando tutto pareva andare storto, e quando un paio di simpatici professoroni erano davvero riusciti a convincermi che non sarei mai stato in grado di compiere nulla di buono nella mia esistenza, sono riuscito a trovare una valvola di sfogo proprio nei videogiochi.
I videogiochi sono un potentissimo mezzo in grado di ridurre al minimo le distanze tra le persone
Incredibile come sia bastato così “poco”, oltre al fondamentale aiuto di persone a me vicine, per ritrovare quel poco di fiducia in me stesso che avevo completamente perso, e proprio per questo vado su tutte le furie quando vedo un medium in grado di offrire così tanto trattato come un hobby di cui vergognarsi o un modo come un altro per sperperare malamente i propri quattrini. Oggi, se non fosse stato per la mia grande passione, sarei sicuramente un’altra persona, con un altro lavoro, parcheggiato in chissà quale città e con compagnie completamente diverse attorno a me, e non posso che essere felice per come sono andate le cose in questi lunghissimi anni. Quando qualcuno spunta con la solita domanda “cosa cambieresti del tuo passato?” ora posso rispondere, con il sorriso stampato sulla faccia, che rifarei tutto nello stesso modo, anche perché – perdonatemi la piccola parentesi necessaria – se ora posso passare una serata a linkare vecchissime canzoni deprimenti ad amici a cui voglio un bene dell’anima, che poi “casualmente” sono anche colleghi, è proprio grazie a un insieme di pixel che si muove su uno schermo.
I videogiochi sono sì un passatempo, un modo per spillarci soldi, uno sfogo e un hobby per passare qualche ora di divertimento, ma sono anche un potentissimo mezzo in grado di ridurre al minimo le distanze tra giocatori, di unire persone con apparentemente pochissime cose in comune, di far provare realmente emozioni e di insegnare letteralmente qualcosa a chi si siede davanti a un monitor. Proprio per questi motivi continuerò ad arrabbiarmi innanzi ai soliti luoghi comuni, a sbraitare come un pazzo e a lanciarmi in inutili crociate; e proprio per questo motivo ho ritenuto giusto scrivere finalmente queste poche righe. Ché poi, così facendo, non devo nemmeno pagare uno psicologo.