Quando il buco si mangia la ciambella

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Sono reduce da 50 ore passate su The Legend of Zelda: Breath of the Wild. È stata una cavalcata divertente, emozionante, sempre stimolante da ogni punto di vista. Ero stuzzicato continuamente dall’esplorazione, dalla divagazione, dall’affrontare una dopo l’altra le sfide che il gioco mi metteva davanti, perché erano divertenti e coerenti con il resto. Le affrontavo col sorriso perché mi sembravano la naturale progressione dell’avventura di Link. Questo aspetto mi ha dato la misura di quanto sia bello l’ultimo Zelda e di quale sia la sua caratteristica più interessante: è tutto organico, fluido, naturale. Non hai mai bisogno di sforzarti per affrontare le sfide secondarie, ma anzi le vivi con piacere avanzando, imparando e avendo a che fare con scoperte che si palesano come sfiziose anche dopo tante ore. Se ci fermassimo a pensare a quanti giochi riescono in questo intento, forse riusciremmo a contarli sulle dita di una mano. Anzi, probabilmente ci basterebbero due dita. Sapete come si dice: non tutte le ciambelle riescono col buco.

Ma che succede quando “il buco” è più grande della ciambella stessa? Dopo Zelda, per esempio, ho recuperato l’ultimo capitolo di Yakuza. Non avendo mai fatto mio un episodio della saga, lo Zero mi è sembrato un ottimo punto di partenza e, in effetti, le aspettative non sono venute meno: l’avventura di Kiryu e Majima è perfettamente comprensibile e funge da prequel perfetto per i neofiti della serie come me. Yakuza, però, ha l’enorme problema di essere un gioco in cui anche la più inutile delle scenette dura un’ora: come un ospite un po’ maleducato, tende a interrompere il flusso senza pietà, con siparietti grotteschi e comici. Le missioni secondarie, le attività parallele e le possibilità opzionali sono poi talmente tante (penso di non averle ancora scoperte tutte tra videogiochi, biliardo, bowling, freccette, chat con le ragazze, magheggi immobiliari, gestione del club, corse di macchinine Mini 4WD…) che ci si ritrova decisamente sommersi, a volte troppo. A questo si sommano tutti i casi in cui uno degli NPC ci ferma per strada chiedendoci aiuto per questa o quell’altra questione. Accade spesso. E sempre spesso, si è “costretti” a mettere in pausa la vicenda principale per ascoltare le assurde richieste degli altri personaggi. Yakuza è un trapezista che cammina sul filo, come Philippe Petit tra le Torri Gemelle: la scrittura della vicenda principale, il gusto squisito per l’azione e la fattura eccezionale delle sequenze narrative sono talmente in alto rispetto allo standard che si fa buon viso a cattivo gioco. Ogni tanto, però, alzo gli occhi al cielo quando l’ennesimo tizio strambo mi avvicina per chiedermi roba assurda: ormai li ignoro e continuo la mia lotta contro la Yakuza.

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Avere a disposizione un mondo da riempire non significa infarcirlo con qualsiasi cosa ci venga in mente

Ci sono esempi che non posso dimenticare di videogiochi deboli dal punto di vista narrativo, dove il buco si mangiava totalmente la ciambella. Impossibile non sorridere ripensando alla quantità di attività laterali che era possibile intraprendere in Assassin’s Creed 3. Di fronte a un titolo che narrativamente era già di per sé diluito da una struttura sempre più “open”, il buon Connor poteva comprare una nave, andare a caccia, giocare una serie di minigiochi perlopiù inutili, reclutare gente, esplorare dei sotterranei, procurarsi armature segrete, raccogliere almeno 2-3 tipi di collezionabili, riconquistare fortini, craftare robe per l’inventario… insomma, presto o tardi ci si rendeva conto che Assassin’s Creed 3 era un grandissimo intorno ma che nel momento in cui volevi addentare qualcosa di più sostanzioso trovavi solo un gigantesco buco. E che dire poi di Far Cry 4? Espulso senza pietà dalla mia console dopo circa una decina di ore di gioco, in seguito al mio essere stato rimbalzato a destra e sinistra tra corse automobilistiche nel pieno della foresta e assalti a torri tutti uguali, cercando di accontentare i capricci di personaggi che nemmeno conoscevo e che mi avevano preso per un galoppino.

È la sfida dell’open world, e non tutti sembrano aver capito di che si tratti. Avere a disposizione un mondo da riempire non significa infarcirlo con qualsiasi cosa ci venga in mente: deve esistere una coerenza, un collante, un filo conduttore che accompagni con naturalezza ogni passaggio dell’avventura; altrimenti siamo di fronte all’assemblaggio di una creatura che, come il mostro di Frankenstein – poveretto! – finisce per essere il risultato di tanti pezzi cuciti alla bene e meglio.

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