Fare critica è un’operazione delicata e per nulla semplice. Chiedete a cento persone secondo loro a cosa dovrebbe servire la recensione di un videogioco e otterrete cento risposte diverse. No, magari non cento, ma comunque risposte molto disparate. Probabilmente quella che va per la maggiore sarà “dirmi se vale la pena comprare un gioco”. Ci portiamo dietro da decenni questa idea di riviste – cartacee o virtuali – di settore equiparabili a quelle che trattano di moto o auto. Analisi sulla componentistica degli ultimi modelli usciti, rapporto qualità prezzo, paragoni basati sulla longevity e robe simili, con annessi listini con i voti dei modelli degli ultimi anni valutati nei numeri precedenti. Cosa che peraltro non molti anni fa esisteva anche su qualche rivista di videogiochi, l’elenco di giochi recensiti nei volumi precedenti con accanto il voto. Una critica strutturalista portata all’estremo che scompone in elementi come un giovane Walter White che alla fine non trova riscontro per quei famosi 21 grammi.
Negli ultimi anni il discorso attorno alla critica si è molto evoluto, va detto, e sempre più spesso sulle testate e nei canali YouTube si è provato a fare chiarezza sul valore e la varietà delle analisi e sui meccanismi che regolano i rapporti tra critici ed editori. In questi giorni, ad esempio, ha imperversato la polemica sul comportamento di Electronic Arts con i codici di Dragon Age – The Veilguard. Il publisher californiano viene accusato da varie parti di aver cercato di manipolare la percezione del suo ultimo prodotto facendo una cernita accurata degli “enti di critica” a cui concedere la key per la recensione. Sembrerebbe che, in seguito alle anteprime di qualche settimana fa, sia stato scelto appositamente di escludere chi si era espresso in termini non entusiastici. In sostanza tutti quelli che rischiavano di etichettare l’ultima opera di BioWare con un voto inferiore al 9 o giù di lì.
Una pratica certamente deprecabile e fastidiosa, che qui da noi conosciamo fin troppo bene grazie a svariati PR italiani a dir poco suscettibili. Altrove probabilmente succede molto più di rado, tanto da fare scalpore. In particolare ho visto girare molto un video di Fextralife, testata anglofona centrata sui giochi di ruolo, che sottolinea come Electronic Arts non li abbia messi in condizione di recensire il gioco perché in fase di anteprima non si erano espressi in termini entusiastici, ma solo tendenzialmente positivi. Viene anche fatto un paragone con il (giustamente) vituperato lancio di Cyberpunk 2077, dove poi il pubblico – inconsciamente o meno – punì severamente il tentativo di CD Projekt di manipolare l’accoglienza del suo gioco. Anche qualche sito italiano ha segnalato di non aver ricevuto il codice e anche da noi è uscita qualche lamentela, in alcuni casi anche con spericolati voli pindarici che associavano la malagestione del publisher alla presunta “wokeness” del gioco.
GUARDIAMO LA LUNA O IL DITO?
Davanti a questa situazione mi chiedo se stiamo davvero parlando del problema o di un suo derivato. Penso che sia sbagliato l’assunto: una testata o un creator che si occupa di critica non deve necessariamente lavorare con le review key, anzi. Trovo che questa polemica tradisca la fallacia su cui si basa interamente questo settore, cioè quella convinzione che esista un qualche tipo di tacito accordo etico tra aziende che producono videogiochi (e quindi vogliono venderli) e figure che si occupano di criticare quegli stessi prodotti. Stampa cartacea, testate on-line, influencer, content creator, podcast, newsletter: tutti noi che ci atteggiamo a critici di videogiochi siamo per le aziende null’altro che un megafono potenziale per far salire i loro stessi guadagni. In quanto tali possiamo davvero biasimare le aziende quando scelgono di tagliarci fuori per cercare un tornaconto maggiore? Non hanno nessun obbligo di metterci in condizione di recensire i loro prodotti.
Non abbiamo solamente accettato per anni che la critica avesse questo ruolo, ma l’abbiamo cementato continuando a trattare il videogioco come mero prodotto appunto, parlando sempre molto più di quelli che vengono o verranno pubblicati e molto meno di ciò che è stato pubblicato qualche settimana fa o più, dando sempre quest’idea di premura, salendo ogni volta sul treno dell’hype, consigliando cosa giocare piuttosto che analizzando, trasformando il rapporto con il publisher in un privilegio esclusivo che traccia una linea tra la critica professionale e quella amatoriale. In una guida di “piccole regole” del celebre critico cinematografico Roger Ebert si trova un passaggio nel paragrafo “No commercial endorsements” che parlando di credibilità spiega che per garantire la trasparenza non bisognerebbe mai accettare denaro (ovviamente) o copie gratuite del prodotto che si va a criticare.
CRITICA UTOPISTICA E COMPROMESSI
Se è chiaro che per una testata come la nostra diventa economicamente impensabile l’idea di comprare in autonomia qualunque videogioco in uscita che si vuole recensire, è a mio avviso altrettanto chiaro come sia sbagliato dare per scontato che ci venga sempre fornito il prodotto gratuitamente – affinché ne possiamo dire peste e corna – dallo stesso editore che vorrebbe trarre il maggior profitto possibile da quell’opera.
Voglio sottolineare che penso sia giustissimo segnalare certi comportamenti dei publisher. A mio avviso andrebbe fatto in termini diversi, proprio per evidenziare che non c’è una violazione di un tacito accordo, ma che non c’è affatto un accordo. Andrebbe esplicitato sempre il funzionamento della critica e quali rapporti intercorrono con i prodotti e i loro publisher, segnalando se si è ricevuto un codice gratuito, un invito a un’anteprima o a qualche tipo di evento, o se si è investito privatamente sul prodotto per fornirne una copertura critica. Soprattutto andrebbe normalizzato un tipo di critica più lenta, che non deve necessariamente arrivare a scadenza embargo ed esaurirsi in pochi giorni, ma può prendersi del tempo per approfondire. O, in casi come questo, per comprare il gioco come qualunque utente e poi esprimere le proprie analisi contestualmente a giorni o settimane dall’uscita. In fondo si tratta solo di scegliere se essere “critici su commissione” che dipendono dai publisher o entità indipendenti che rivendicano la genuinità del proprio giudizio.