Watchmen – Recensione




La domanda rimane sempre la stessa: cos’è nato prima fra l’uovo o la gallina? Nella modalità in cui il Dottor Manhattan percepisce il tempo, uovo e gallina possono coesistere nello stesso momento, divisi da un piano temporale; proprio da un uovo Damon Lindelof segna l’inizio e la fine di questa serie, e non è stata certo una scelta casuale.

La sua visione diWatchmen, libero sequel sia dell’opera di Dave Gibbons e Alan Moore (ma non diteglielo, ha già pronti stormi di avvocati da lanciare contro tutto il globo) per spirito drammaturgico, sia, almeno un pochetto, anche del Watchmen di Snyder per la costruzione di ogni singola immagine,  è quanto di più vicino si possa pensare al miracolo televisivo.

watchmen recensione

Nessuno e proprio nessuno avrebbe scommesso su un prodotto del genere: da un pilastro fondamentale dei comics, Watchmen è ancora oggi uno dei punti più alti per il fumetto mondiale, una stella inarrivabile che riesce a brillare e segnare la via nel cielo per tante altre storie e autori, a dimostrazione che qualunque medium, con il giusto messaggio e contestualizzazione, può davvero aspirare ad ambizioni titaniche.
Questo è stato Watchmen fumetto, laddove il film Watchmen  firmato Snyder, che ha tra le sue fila tanti detrattori quanti amanti, volgeva al centro della sua visione due personaggi ben distinti: Il Comico e il Dottor Manhattan, uomini dalle forti  impostazioni morali che venivano costruiti come facciate di una stessa medaglia, due pesi e due misure che gravavano senza filtri sul destino del mondo e del pericolo atomico, sempre più sbuffante sul collo di tutta l’umanità.

nessuno avrebbe scommesso sulla riuscita di un prodotto del genere con a capo il nome Watchmen

Spostandosi decenni dopo, Lindelof crea l’unico sequel davvero immaginabile, smontando lo stesso fumetto nei suoi piccolissimi ingranaggi, proprio come farebbe il Dottor Manhattan, per poi prendere i giusti strumenti per costruirvi sopra la sua storia: un omicidio, un mistero, un complotto, il passato che torna violento nella vita dei nostri protagonisti e la stessa necessità di preservare il buono per costruire un futuro migliore, in questo caso tramutato nell’ossessione dell’eredità fatta di carne e sangue, figli e intenti: un circo di maschere che giocano e si nascondono dietro la battaglia più vecchia del mondo: quella del razzismo.

Mentre i suprematisti bianchi complottano, lodano la pelle, bramano i poteri del Dottor Manhattan e si nascondono dietro la polizia bendata di giallo, naturale prodotto evolutivo del concetto di supereroe, la protagonista Angela Abar si districa in una lotta più grande di quanto riesca ad immaginare  Lei stessa è inerme alla forza del racconto, così come alla potenza forza del suo passato vicino e lontano (l’episodio sei è, assieme all’episodio otto del reveal di Twin Peaks, uno dei prodotti audiovisivi più impressionanti e incisivi di questa decade, davvero qualcosa di inarrivabile).

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Apprezzando l’Ozymandias di Jeremy Irons, la sua reclusione al pari di un girone dantesco, un’agonia senza apparente fine, il perno su cui Lindelof fa leva è proprio il Dottor Manhattan. Prendendolo come parte fondamentale dell’opera di Moore, quasi una chiave di volta per capire le intenzioni degli autori dietro il progetto, Lindeloft dimostra di avere la testa e le capacità di soverchiare lo stesso personaggio, conoscerlo a fondo e spremerlo ancora di più; A Gods Walks into Abar (titolo dell’ottava puntata da riportare rigorosamente in forma originale, per non perdere il doppio significato del gioco di parole) è un altro episodio perfetto, complici la destrutturazione e sottrazione di tutti i principi del Dottor Manhattam che diventano una vera estensione dell’io di Alan Moore, inserita nell’opera ma a sua volta rivoluzionata in virtù della nuova linea narrativa.
Tutto risulta così viscerale e logico, le immagini lasciano spazio al verbo che si insinua tra i due interlocutori, mentre noi spettatori abbiamo da terzi incomodi un punto voyeristicamente cinematografico per assorbire la posizione del leggendario Doc Manhattan. Anche assistendo all’ultimo episodio, con tutti i personaggi che fanno i conti con il proprio destino e il proprio passato, davvero non si può uscire più soddisfatti del risultato. Non tutti hanno apprezzato allo stesso modo la puntata finale, ma per quel che mi riguarda l’ho trovata ancora una volta perfettamente consequenziale, certo più apertamente fumettosa ma sempre lucida nel colpire anche con i dettagli meno evidenti.

Questo Watchmen non è una storia incentrata su un personaggio, neanche su un gruppo e tanto meno si perde dagli albori dei Minutemen fino ai giorni nostri; è un racconto che conduce a un reset, un’ulteriore esplorazione verso l’ipotetica fine di un universo che abbiamo conosciuto e amato, portato in televisione non da un fan, ma da un autore che conosce e porta rispetto alla controparte cartacea. Un miracolo televisivo di fattura impressionante.

Nel nostro piccolo, speriamo che il grande Alan Moore abbia, anche per semplice curiosità, buttato un occhio sul ciclo di puntate. Lui rinnega tutto, eppure per una volta dovrebbe farsi una carezza sulla folta barba e cedere alla visione della serie, perché è la cosa più bella che sia potuta capitare a Watchmen da anni a questa parte.

VOTO 9

Genere: drammatico, azione
Publisher: Sky Atlantic
Regia: vari
Colonna Sonora: Trent Reznor, Atticus Ross
Interpreti: Regina King, Don Johnson, Tim Blake Nelson, Yahya Abdul-Maten II, Jeremy Irons
Durata: 9 episodi

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