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GOG.com regala MDK, oltre 300 giochi in sconto per il Black Friday

Durante una delle tante discussioni giornaliere che avvengono in redazione, tra termini aulici, monocoli che cadono ed elucubrazioni talmente edotte che in confronto il Mensa è un self-service in cui ci si sfama in pochi minuti, pochi giorni addietro si è disquisito su quanto sia infame la nostra memoria da videogiocatori. Riusciamo a malapena a ricordarci il compleanno della nostra dolce consorte, eppure possiamo ripetere a menadito lunghissimi dialoghi di un gioco di ruolo uscito vent’anni or sono, o ancora peggio ricordare ogni passaggio segreto in una vastissima mappa di un luogo che – a conti fatti – non esiste.

Ciò su cui però il nostro cervello continua a fare continuamente cilecca è la grafica dei vecchi titoli, soprattutto i primi in tre dimensioni usciti tra la fine dei ’90 e il primo lustro del nuovo millennio. Se chiudete gli occhi e ripensate a Morrowind, riuscite a vedere Seyda Neen con il suo faro nel bel mezzo di una vivissima palude, ricca di fauna e vegetazione, in cui decine di abitanti camminano affaccendati per il centro cittadino. Se, colti da nostalgia, decidiamo di reinstallarlo o, per fare prima, di buttarci a capofitto su YouTube, non possiamo che rimanere semplicemente sconvolti dalla scoperta che in realtà la nostra memoria sia completamente fallata: un orizzonte scarno, tre PNG che camminano a passo d’anatra senza una meta, due alberi, tre libellule e una lieve nebbiolina per non costringere al suicidio processore e scheda video. Stop. Raccontavo proprio al mio amico Claudio che, prima di controllare qualche vecchio screenshot, il buon vecchio Soldier of Fortune – uno sparatutto di Raven Software uscito nel lontanissimo 2000 – appariva nella mia mente come Far Cry 4, ad altissima definizione e ricco di un numero improponibile di dettagli.

morrowind old

Dedicarci dopo molti anni ai videogiochi del passato potrebbe farci davvero male

Non riesco a comprendere i motivi per cui il nostro cervello ci gioca questi “brutti” scherzi. Con tutta probabilità, non potendo per ovvi motivi ricordare ogni singolo dettaglio, ci rimangono in mente i concetti più importanti di un’opera e le sensazioni da essa trasmesse, che vengono poi “ricostruiti” utilizzando immagini più recenti che in qualche modo somigliano a quelle originali. E così, le passeggiate attraverso gli oscuri corridoi della Cittadella in System Shock – pubblicato nel 1994 – chiudendo gli occhi rubano completamente la grafica del recente Alien: Isolation.

Tutto ciò nasconde sia un lato positivo sia uno negativo: il bello di questo “scherzetto” è che, almeno nel nostro cuore, i titoli che ci hanno accompagnato durante questi lunghissimi anni da videogiocatori incalliti continuano a essere semplicemente meravigliosi, tanto quasi da dimenticarne ogni difetto e arrivare a trasformare titoli “mediocri” in “capolavori del passato”; allo stesso modo, dedicarci dopo molti anni alle opere del passato potrebbe farci davvero male, prima mostrandoci la cruda realtà in bassa risoluzione, poi ricordandoci che effettivamente Giants: Citizen Kabuto non era la perfezione fatta videogioco.

Sono sempre più convinto che noi videogiocatori viviamo perennemente con un’ancora legata al nostro passato, che ci ricorda sì le nostre origini ma che, al contempo, non riesce a farci ragionare lucidamente su diversi argomenti. Nonostante ciò, ritengo che tagliare la fune che ci lega a quel macigno sia qualcosa di profondamente sbagliato: è giusto vivere appieno le meraviglie di questa generazione videoludica, ma è altrettanto vero che senza l’esperienza maturata a suon di MDK e Sacrifice, oggi ci sentiremmo del tutto incompleti. Ogni titolo giocato, finito o – più semplicemente – vissuto, diventa parte integrante della nostra “storia”: allo stesso modo in cui ricordiamo con un sorrisetto nostalgico le estati passate al mare con la compagnia di amici adolescenti, dovremmo rimembrare anche i pomeriggi e le notti spese a giocare a Kingpin: Life of Crime. Lasciamo perdere le foto, che ci ricorderanno che la ragazzetta che ci ha fatto innamorare in realtà era decisamente bruttina, che il bar che frequentavamo in realtà era un mezzo tugurio e che la camicia hawaiana che abbiamo indossato per un’intera stagione in realtà sembrava la tappezzeria del divano, e concediamo invece tutto il beneficio del dubbio possibile alla nostra memoria. Solo in questo modo posso continuare a dire che Ecstatica è uno dei miei giochi preferiti, e nessuno potrà mai farmi cambiare idea. Almeno finché qualcuno non mi invierà a tradimento un video di gameplay.

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