Ho sempre trovato affascinanti i modi in cui venivano declinate certe avventure grafiche, in particolare se guardo a quel glorioso passato fatto di SCUMM e questioni assurdissime. Alcune di essere erano di una difficoltà assurda perché costringevano a ragionare su un piano ben lontano dalla logica pura: il rischio di ritrovarsi a provare “tutto su tutto”, nella speranza di beccare per puro caso il viatico verso il passo successivo, era ben più di un’ipotesi remota. Me li sono immaginati tante volte i vari David Fox e compagnia – soffocati nelle loro stesse risate, mentre si davano grandi pacche sulle spalle – poco dopo aver pensato che sì… aveva un senso far esplodere il microonde di un aeroplano con un uovo, oppure che si potesse lanciare dentro un quadro elettrico che fa le bizze il proprio compagno conigliomorfo, prendendolo per le orecchie.
Questo approccio al limite del grottesco sta purtroppo passando di moda. Se guardo al presente, di avventure grafiche intrise di enigmi basati su postulati assurdi ne vedo ben poche: anche se una di queste si chiama Thimbleweed Park, è innegabile come ci si stia spingendo sempre più verso un approccio à la graphic novel interattiva, strada necessaria per evitare un rimbalzo istantaneo da parte delle generazioni che non hanno vissuto gli anni d’oro del genere o di chi, seppur anzianotto, si è avvicinato al mondo dei videogiochi solo di recente. Intendiamoci… titoli come Life is Strange, Silence o Tales from the Borderlands rappresentano gemme inestimabili nel panorama del genere; tuttavia, non posso non sottolineare come, negli ultimi anni, quel modo pazzerello di costruire un’avventura grafica stia sparendo poco alla volta, se escludiamo dal paniere il recente capolavoro di Ron Gilbert e altri pochissimi esempi, come i due splendidi The Book of Unwritten Tales.
All’epoca avrei venduto un rene pur di partecipare al processo creativo che ha portato sui nostri schermi alcuni dei titoli più celebri e folli