In questi giorni si accavallano notizie più che mai convulse che ci hanno fatto pensare non poco sul ruolo che riveste la stampa, ma anche su quello che i videogiochi hanno nella testa di chi, in teoria, dovrebbe promuoverli. Non voglio star qui e fare polemica sul singolo caso, perché mi sembra abbastanza inutile dare troppo risalto a iniziative di marketing sgangherate, ma non posso non ammettere di essere confuso, perplesso e, francamente, un po’ stranito. Sì, perché vorrei spostare il discorso, per una volta, non su di noi, sul nostro ruolo, ma su quello che avviene nel mondo della comunicazione dei videogiochi, lato aziende e agenzie. Ovviamente le scelte che compiono sono legittime e hanno i loro buoni motivi per farle, pur tuttavia noto una tendenza alla pianificazione a breve termine che è un po’ angosciante e, a mio modo di vedere, poco lungimirante.
Mi spiego meglio. È evidente che molte scelte che vediamo quotidianamente siano allineate a una strategia tale che voglia massimizzare le vendite controllando in maniera assoluta tutti i flussi di comunicazione. Comprensibile, certo, ma in un mondo in cui il numero di copie vendute sia l’unico aspetto che conta e che l’unica metrica che influenzi davvero il mercato sia quella del reach e delle views. In questo senso, puntare su influencer e talent che amplifichino il messaggio corporate, in teoria, sembrerebbe la cosa più corretta. Ma è esattamente così semplice e, sulla lunga, paga davvero una strategia del genere? Intanto, il ROI della comunicazione, ovvero il ritorno dell’investimento fatto per tutte le attività di promozione, è qualcosa di scarsamente misurabile: all’atto dell’acquisto non puoi sapere perché qualcuno voglia il tuo prodotto, se per il suo valore genuino, perché ha letto le recensioni, perché gliel’ha consigliato un amico o perché hai fatto una buona campagna di marketing. Certo, gran parte delle volte è un mix del tutto, ma effettivamente non puoi sapere quanto aver avuto Capitan America, Thor o l’Azzeccagarbugli come testimonial ti abbia aiutato, salvo prove empiriche che raramente si fanno. Analogamente, la scelta dell’influencer dovrebbe essere soggetta a una ricerca di targettizzazione ben definita: devi sapere chi vuoi colpire, conoscere le sue abitudini, il suo linguaggio, il suo uso dei media.
Non è così e non può essere così: il “basta che se ne parli” vale fino a un certo punto
Eppure no, non è così e non può essere così: il “basta che se ne parli” vale fino a un certo punto. Nel mondo della comunicazione esistono diversi valori da curare, tutti immateriali, non misurabili, eppure importanti quanto le vendite: il valore del brand (quanto è figo), il posizionamento nella testa dell’utente (sono davvero i migliori a fare i simulatori di banane!), quanto mi fido di loro e quanta riconoscibilità hanno per il target di potenziali acquirenti. Tutte queste cose non si conquistano amplificando il reach, per il semplice motivo che spesso e volentieri nei casi più o meno grotteschi o ben oliati di uso di talent e testimonial, parte del reach è dovuto esclusivamente allo stuolo di fan della singola persona. A quel punto fa tutto la profilazione e la scelta del personaggio: se la sbagli, il fatto che tu abbia raggiunto un miliardo di persone è inutile e, per certi versi, dannoso per gli altri valori di cui sopra. È un discorso lineare, ma che evidentemente non viene preso troppo in considerazione da chi realizza le campagne.
Saturare canali di comunicazione porterà a conseguenze non piacevoli
Ricordo benissimo una lezione in cui ci dicevano che il valore più prezioso, per una qualunque azienda, è la capacità di riuscire a far parlare di sé facendo scattare l’interesse da parte di chi ha un vaglio critico alle spalle, che percepisce e interiorizza quelle qualità totalmente immateriali a cui facevamo riferimento prima e, dunque, si sente in dovere di parlarne con il proprio “pubblico”. Quella della credibilità è, da sempre, il punto focale delle strategie di marketing di lungo periodo, ed è sul lungo periodo che inizio ad avere forti dubbi nel nostro settore.