Ci stavo pensando qualche sera fa, dopo aver rivisto per l’ennesima volta quel piccolo capolavoro che è Seven, un film che – nonostante gli anni sulle spalle – è ancora oggi estremamente attuale nel modo di raccontare una storia e nell’affrancarsi dai cliché di un certo modo di fare cinema. Alla fine della storia (attenzione agli spoiler nelle prossime righe, ma mi perdonerete, visto che sono ormai passati 23 anni) il cattivo ci lascia le penne, ma il modo in cui avviene la sua morte stravolge le regole e lo innalza a vero vincitore di tutta la vicenda. È quasi ironico il fatto che lo stesso Kevin Spacey sia il volto di un altro cattivo che, in un film pubblicato sempre nel 1995, vince la sua battaglia contro il bene: Keyser Söze, ne I Soliti Sospetti, incarna il villain che sfugge alla legge e che la fa franca; un uomo il cui piano subdolo e infingardo si dipana perfettamente, nodo dopo nodo, senza che si possa fare alcunché perché l’epilogo sia diverso da quello immaginato dallo sceneggiatore.
Il cattivo che vince ci spiazza perché siamo ormai assuefatti a un modo buonista di fare intrattenimento, dove è necessario a tutti i costi veicolare un messaggio positivo, laddove gli eroi – nonostante numerose avversità – arrivino comunque a portare a casa il risultato. Il mondo, purtroppo, non è così: trovo quindi necessario che – di tanto in tanto – anche nella finzione di un film, di un libro o di un videogioco ci sia qualcuno che ci sbatta in faccia la crudezza della realtà, nella quale talvolta il male la fa franca, a prescindere da tutti gli sforzi che possiamo profondere per evitarlo.
L’amarezza del fallimento è un sentimento nobile quanto l’esaltazione della riuscita
Assistere a uno stravolgimento dei canoni della letteratura di intrattenimento è taumaturgico e ci fa bene, ancor più se arriviamo a ridosso della fine con un’empatia forte verso il protagonista. L’amarezza del fallimento è un sentimento nobile quanto l’esaltazione della riuscita: più straniante, certamente, ma non per questo meno dignitoso ai fini della fruizione emotiva. E anzi, proprio perché inatteso, è un turbamento che ci può restare in testa e nell’animo più a lungo, a patto che la chiosa della narrazione ne puntelli i motivi con chiarezza cristallina. Con questo non voglio dire che vorrei scoprirmi più spesso a leggere i titoli di coda con addosso quel tipo di spaesamento, sia chiaro: tuttavia, apprezzo seriamente lo sforzo di chi propone – almeno di tanto in tanto – situazioni “di rottura” dei cliché narrativi, o comunque esperienze con toni di grigio, dove bene e male possono confondersi e dove non è tutto distintamente separato da un filtro morale che tagli in due la mela con un colpo secco. Alla fine, ciò che conta è non tifare apertamente per il cattivo: quello sì che sarebbe un gesto da brutte persone.