Per sapere quando un fenomeno mediatico smette di essere emergente e diventa di pubblica attualità basta iniziare a notare se altri mezzi di comunicazione con un bacino d’utenza maggiore iniziano a trattarlo come fonte di ispirazione o a indagarci su. Per dire, YouTube e i tutorial sono arrivati in televisione, ispirando anche format per la generalista – Detto Fatto, che è poi la dimostrazione di quello strano posto che è l’Italia per consumi culturali, visto che si tratta del tutorial che diventa programma che diventa rivista – e Facebook ha avuto il suo bel film al cinema. Potrei citare biopic su personaggi della contemporaneità o altri fenomeni globali, ma ci siamo capiti, giacché il punto della questione è che, come d’incanto, negli ultimi anni, anche i videogiochi si stanno ritagliando il loro spazio, e dalle webseries estremamente di nicchia (e stereotipate) come The Guild e Video Game High School, nate e prodotte a uso e consumo di chi è dentro un certo tipo di cultura, si è finalmente iniziato a parlare di videgiochi in senso più ampio.
Il paradosso in cui spesso cadono i documentari sui videogiochi è non saper identificare il proprio interlocutore
L’altro pilastro della cinematografia documentaristica dedicato al mondo dei videogiochi è probabilmente Free to Play del 2014, prodotto da Valve, e capace di raccontare il mondo del gioco competitivo (nel dettaglio, DOTA 2) senza nessun sensazionalismo tipico dei servizi apocalittici. Il trittico dei documentari recenti si chiude con Videogame: The Movie di Jeremy Snead, lungometraggio finanziato attraverso crowdfunding che ha la particolarità di aver coinvolto Sean Astin (Samvise Gamgee del Signore degli Anelli) come narratore. Ecco, su questo film potremmo parlare per ore, dal momento che evidenzia un paradosso ricorrente nel momento in cui appassionati di videogiochi provano a raccontare il proprio mondo, nella misura in cui non è mai chiaro il soggetto a cui si sta parlando: per quanto omnicomprensivo e generalmente corretto, Videogame: The Movie risulta un ritratto disorganico che vorrebbe dire tutto ma non ha il tempo di farlo. Poi, per carità, ha dalla sua una quantità di materiale originale incredibile, ed è una buona base per chi, di videogiochi, ne sa poco e nulla. Ma non è sufficiente.
Il concept di “sbloccare” i contenuti per tutti ha una logica di linguaggio interessante
Nel frattempo, però, è anche giusto guardare al nostro orticello, perché il fatto che negli ultimi anni si senta l’urgenza di parlare di videogiochi a tutti è qualcosa che ha coinvolto anche l’Italia, benché siamo ancora nell’empasse di non sapere bene a chi parlare e quando parlare. Un po’, a mio avviso, ci sta riuscendo Motherboard con Game Breakers, una serie che punta a raccontare la scena dei videogiochi, in particolare in Italia, con piglio generalista e corretto, e ottime immagini. Al contempo, anche Sky, con il suo canale tematico Generations, ha prodotto una serie di documentari sul mondo del gaming e affini. Lì, però, secondo me, si verifica uno strano cortocircuito: proporre contenuti ben confezionati, ma di natura estremamente generalista e “introduttiva”, anche dal punto di vista del linguaggio, su un canale dedicato ai millennials e ai consumatori di crossmedialità. Di certo, però, è pur sempre un inizio, che va coltivato e supportato, per non fare sempre quelli che se la cantano e se la suonano da soli.