Chi fra voi ricorda Un tranquillo weekend di paura? La notevole pellicola di John Boorman (Excalibur, Zardoz e diversi altri film di grande pregio) non è stata la sola a mettere al centro della sua storia un gruppo di sanguinari bifolchi delle zone rurali statunitensi, ma è certo una delle più originali e apertamente metaforiche nel rappresentare la sottile distanza fra l’uomo civilizzato e i suoi peggiori istinti animali, in modo meno grottesco di quanto abbiano fatto tanti celebri horror. Il film, con un Burt Reynolds temporaneamente senza baffi, mi è rivenuto in mente l’altro giorno per uno strano giro di idee: Un tranquillo weekend di paura è ambientato nel tratto georgiano dei Monti Appalachi, non lontano dall’ambientazione di The Walking Dead che in un commento Facebook (su questa news) è stata confusa con il Montana di Far Cry 5, almeno nel “feeling” dell’azione inscenata. Formalmente si tratta di un errore da migliaia di chilometri, ma non così grave per la percezione dello scenario.
Per noi italiani, abituati a veder drasticamente cambiare il territorio e persino i dialetti in poche decine di chilometri, le differenze fra diversi bifolchi e diversa vegetazione di zone anche così distanti degli USA diventano meno cruciali se, appunto, l’elemento caratterizzante rimane simile, ovvero il pensiero che in luoghi relativamente vicini (percepiti come parte di una comunità civilizzata, ma geograficamente impervi) si nascondano eccezioni antropologiche delle quali la società è più o meno direttamente responsabile; e di cui, ovviamente, pagherà le conseguenze qualcuno erroneamente convinto di essere al sicuro. È come se la follia introversa del Norman Bates di Psycho fosse andata a proliferare in mezzo alle pericolose vastità degli Stati Uniti, tra foreste e pieghe di deserti rocciosi, esplodendo nel gore di tanta cinematografia che, al di là dell’esempio di Boorman, ha dominato i botteghini degli anni ’70 e ’80 con alti incassi e bassissimi costi di produzione.
Non mi dispiace per nulla che Ubisoft abbia scelto un’ambientazione influenzata da antiche contraddizioni
In alcuni casi, ed è sicuramente vero per i pur diversissimi Outlast II e Far Cry 5, una visione morbosa e malata del cattolicesimo può avere un peso molto forte nella rappresentazione, affiancandosi alle derive degli aspetti primordiali delle società umane, religione compresa. Quelle americane sono tutte (ex) terre di frontiera che hanno visto sfilare roghi di streghe, massacri razziali e nefandezze di ogni genere, anche sotto simboli cristiani, ed era inevitabile che i tratti di folle misticimo fossero ulteriormente aggiunti alla pietanza da autori moderni, ad esempio ne Le Streghe di Salem di Rob Zombie (che al cinema di Tobe Hopeer e Wes Craven deve tantissimo). Fatto sta che non mi dispiace per nulla che Ubisoft abbia scelto un’ambientazione influenzata da antiche contraddizioni, in cui alzare una Bibbia sembra poter giustificare qualsiasi cosa; il publisher si è già dimostrato abile nella scelta degli scenari, e stavolta è riuscito a sfruttare un luogo – il Montana – poco battuto dai videogiochi ma capace di restituire un sapore vicino agli esempi sopramenzionati, perfetto per l’approccio vagamente “conradiano” (à la Cuore di tenebra, insomma) delle tante ambientazioni di Far Cry, catapultati in comunità sempre più remote, selvagge e brutali. Stavolta “remote” lo sono fino a un certo punto, e forse per questo potrebbero risultare più interessanti di tutte le ultime messe insieme. Non a caso, alcune immagini richiamano i fatti occorsi nel 2016 al Malheur National Wildlife Range, in cui militanti armati con abbigliamento da vaccari hanno occupato la sede del parco nella contea di Harney, Oregon. Quasi una materializzazione reale dello stesso incubo.
Sia chiaro che non mi sogno nemmeno di glorificare Far Cry 5 sulla base di semplici sensazioni; la serie di Ubisoft è risultata sempre divertente ma, come tante altre di lungo corso, rischia di appoggiarsi su cambiamenti sostanzialmente cosmetici e… farcela lo stesso, almeno nelle vendite e nell’ennesimo consolidamento qualitativo. Se così dovrà andare, tanto vale farlo con una fila di bifolchi di un certo livello.