Sono sempre stato particolarmente legato ai videogiochi, al punto che prima di saper scrivere il mio nome con la tastiera del buon vecchio Commodore 64 ho imparato a digitare PLAY premendo un ben preciso ordine di tasti, senza però saperne il significato. Quando la passione è così verace non ci si può accontentare del semplice “giocare”, e si comincia anche a trattare il medium in ogni modo possibile. Nella seconda metà degli anni ’90 ciò voleva soltanto dire una cosa: andare in edicola e portarsi a casa una delle tante riviste del settore. Io, come potrete immaginare, ho sempre tifato per TGM, anche se non sdegnavo qualche “scappatella” verso la concorrenza, e proprio così mi sono interessato alle tante rubriche che mese dopo mese apparivano e scomparivano. Le recensioni sono sempre state l’anima di quelle testate, e leggendo con avarizia i testi dei vari redattori che snocciolavano a fondo i pregi e i difetti di un’opera ho in qualche modo imparato a conoscere meglio il mio passatempo preferito. Ciò che però rendeva la rivista unica nel suo genere erano le restanti pagine che parlavano di videogiochi in maniera più marginale, dalla posta alle voci di corridoio, addirittura per il sottoscritto più importanti delle altre.
Eppure, se dovessi scegliere una sola rubrica tra le decine che la memoria mi offre, punterei senza indugio il dito verso le Cronache di Britannia. Tralasciando l’amore che ho provato, e provo tutt’ora, nei riguardi di Ultima Online, quel piccolo box mensile di pochi caratteri riusciva a parlarmi non solo di un titolo nella maniera più tradizionale, ma mi trasmetteva tutte le incredibili potenzialità che un prodotto del genere era in grado di offrire. Per sapere quanto un videogioco poteva essere più o meno riuscito e per scoprirne i suoi pregi e difetti andava bene qualsiasi rivista, ma solo quel piccolo spaccato di “vita” riusciva a farmi sognare. Oltre alla più che naturale curiosità legata alle vicende del protagonista, ciò che mi lasciava perennemente a bocca aperta era rendermi conto di quanto un videogioco si fosse in realtà trasformato in un enorme mezzo per farci vivere qualcosa di più grande e affascinante. La sua storia potevo conoscerla soltanto in quel modo, come poi è accaduto anche con le vicende dei miei personaggi che – volente o nolente – sono una parte importantissima della mia vita. Ciò che forse rimpiango di più dei “bei tempi andati”, fin troppo legati alla dannata nostalgia, era proprio quella voglia di narrare le proprie esperienze in maniera così diretta e personale: una cosa che, invece, fatico a trovare al giorno d’oggi.
Vorrei davvero vedere un videogioco attraverso gli occhi dei miei colleghi
Ai motivi suddetti si aggiunge anche il dubbio di essere l’unico (o quasi) che apprezza questo determinato tipo di articolo, e che lasciandomi troppo andare verso uno stile diverso dalla “solita” recensione rischierei soltanto di rendere la vita difficile a chi vuole giustamente informarsi su come spendere i propri risparmi. Così, tra un sospiro e l’altro, ne approfitto per fare la cosa più furba: chiedere a voi cosa ne pensate. Io mi sono già espresso, e quando possibile perdo intere ore nel leggere le disavventure di qualche folle che ha provato a scendere nelle profondità dei Dungeons of Doom alla ricerca dell’Amuleto di Yendor, o di qualche provetto ingegnere intento ad ergere la propria fortezza nanica perfetta. E dopo tutti questi anni continuo ancora a stupirmi di come un semplice videogioco possa trasformarsi in un generatore di epiche avventure. L’universo dei videogiochi è speciale per questo: il nostro piccolo alter-ego, composto da pixel e stringhe di codice, è unico, e nessuno potrà mai crearne una copia perfettamente uguale. E l’unico modo di farne conoscere le avventure è, appunto, scriverne.