Senza una trama, che m’ha fatto morire

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Ho sempre desiderato e ricercato la presenza di una trama nei “miei” videogiochi, probabilmente sin da quando ho letto i meravigliosi versi scritti da Jane Jensen per Gabriel Knight: Sins of the Fathers: “Ho sognato di sangue sulla rena, di occhi che parlano di peccato. Il lago era liscio e profondo e scuro, così come lo era la sua pelle profumata…”. Questo incipit, di pura poesia, ha segnato la svolta di un genere – quello delle avventure grafiche – già impegnato sotto il profilo della narrazione. Non pretendo sempre altissima qualità, beninteso: mi accontento di un onesto canovaccio in caso di shooter o di strategici (in tempo reale o a turni); desidero invece un tessuto più elaborato per quanto concerne i GdR, per agevolare l’immersione nel lore e nel mondo di gioco, mentre quando si entra nel territorio delle avventure, beh… lì pretendo assolutamente il top.

Soprattutto, chiedo un po’ di diversità, una tregua da pirati, reami da salvare e galassie in pericolo. Chiedo dei companion che non siano un mero riciclo dei tipi più banali che si possano immaginare (il guerriero che aspira a morire con onore in battaglia, la ragazzina timida, la vissuta “arpia”), e quando vedo, con ogni nuovo gioco, il party sempre uguale di BioWare che dovrà accompagnarmi nelle avventure, rimpiango seriamente Sulik, Kreia e HK-47 (quest’ultimo creato dalla BioWare dei tempi andati). Dal punto di vista dell’intreccio faceva meglio persino Infocom (dico “persino” in quanto testi e dialoghi erano giocoforza compressi a causa di computer che avevano poca memoria), che ambientava le sue vecchie avventure testuali in un circo, nei meandri della burocrazia, nella magione di uno zio – mogul dei B-movie – e nel vecchio castello di un alchimista, dove assistiamo, nel corso della vicenda, a una progressiva corruzione del terreno di gioco, contaminazione che si rivela antesignano del “mostro” degli Zerg.

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Chiedo un po’ di diversità, una tregua da pirati, reami da salvare e galassie in pericolo

Le mie aspettative – ancora – sono troppo alte, ed è dunque facile che rimanga “scottato”. In taluni casi, addirittura, la trama arriva ad arrecarmi fastidio: quando non adeguatamente puntellata, rischia infatti di scricchiolare sotto il peso di banalissime romance, nonché di cadere vittima del copia/incolla, di omaggi che potremmo definire serenamente scopiazzature e di decessi inutili, compreso quello dell’avatar, perché oggi – con molti titoli “figli” de Il Trono di Spade – è sovente una poetica del lutto, del dolore, della morte in famiglia. Va ancora peggio quando l’esperienza è guidata verso un ending non gradito. Infine, e soprattutto, la narrazione si fa sovente schiava della moda, perché se non son draghi son zombie, oppure la post-apocalisse. Come risultato, la penna di Jane Jensen è, tutt’oggi, ineguagliata, e ad essa mi sento di accostare solo Benoît Sokal (Syberia) e Ragnar Tørnquist (The Longest Journey, ma solo il primo). Bravi anche i Remedy, Telltale Games (con alti e bassi) e i Wadjet Eye. Per il resto, non ci siamo.

Accade dunque giocando a Legend of Grimrock, dove la narrazione arriva a togliere il “disturbo” molto presto, che io mi senta affrancato dal peso delle aspettative. Dopo l’incipit (“Ciao, siete quattro detenuti. Vi gettiamo in un dungeon e se sopravvivrete i vostri crimini saranno assolti”), il gioiellino di Almost Human offre solo “semplice” e purissimo gameplay. E, credetemi, giocare senza una trama è stata una graditissima liberazione.

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