Il demone della longevità

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Una delle cose migliori che il giornalismo videoludico ha fatto nel corso della sua (presunta) maturazione è stata, probabilmente, quella di lasciarsi indietro il pagellino stile “Super Sfida” di Guida al Campionato, quello per cui, insomma, magari Zelda ha più senso del gol di Horizon, ma di testa è meno forte. Intanto, perché come diceva il buon Mario l’altro giorno, quello del voto è tipo il momento più drammatico di tutto il processo di critica, figuriamoci a doverlo spalmare su più voci, ma anche perché, a mio discutibilissimo giudizio, metteva in risalto categorie tassonomiche non del tutto rilevanti alla fine della valutazione di un prodotto.

Mi spiego meglio. Che senso ha valutare il sonoro di Football Manager? E la grafica? Devi buttarci dentro pure l’interfaccia? E un gioco dalla grafica meravigliosa e con l’interfaccia orrenda? Tra l’altro, il pagellino del demonio™ è evidentemente frutto di un periodo in cui la qualità dello staging e della scrittura non venivano neanche troppo considerati parametri rilevanti. Eppure, dalle vestigia del tempo che fu c’è una voce che, tutto sommato, è sopravvissuta nel tempo, benché libera dal giogo del numeretto: la longevità.

I videogiochi spesso sono mediamente più lunghi di quanto dovrebbero essere

Ecco, sebbene da qualche parte nello snippet di Google c’è scritto che TGM sia la rivista più longeva del settore (sì, in Occidente, ciao Famitsu!), io la parola longevità vorrei sradicarla dal dizionario, e benché l’abbia colpevolmente utilizzata più di una volta nei miei scritti, vorrei elidere il concetto da qualunque scritto critico. Prima che qualcuno citi (l’ingiustamente vituperato) The Order 1886 nei commenti, io lo dico subito: per me il titolo di Remedy at Dawn, paradossalmente, era pure troppo lungo e con un’oretta di sparatorie filler in meno sarebbe stato un gioco migliore. Sì, l’ho detto! Il succo del discorso è che, secondo me, i videogiochi spesso sono mediamente più lunghi di quanto dovrebbero essere, nella misura in cui la maggior parte dei titoli soffre di una clamorsa sindrome “da minutaggio”, per cui l’iterazione delle meccaniche di gioco e del messaggio di un’opera vanno ben oltre il necessario a rendere l’esperienza significativa. E questo, a mio avviso, succede in moltissimi giochi, anche quelli bellissimi: Horizon che a una certa ti lancia contro una badilata di dinosauri e NieR: Automata con una struttura open world vacillante piena di inutile backtracking, per citare due titoli che ho comunque amato alla follia. Voglio dire, sia nella lucida follia di Yoko Taro che, soprattutto, nell’opera di Guerrilla Games molte delle ripetizioni e, in generale, l’allungamento del brodo sono contestualizzati anche abbastanza bene, ma ciò non toglie che con qualche ora in meno all’attivo sarebbero stati giochi ugualmente memorabili. Così come, allo stesso modo, Torment: Tides of Numenera sarebbe stato un signor gioco di ruolo anche senza qualche centinaia di linee di dialogo.

D’altronde, e questo lo dicono le statistiche (ma basta andare a vedere gli achievement di completamento dei giochi per averne conferma), la maggior parte dei giocatori non finisce i giochi che compra, anche prendendo a campione le opere più story driven e, sorpresa, persino titoli di lunghezza non esagerata come Portal. Questo, di per sé, non è un male assoluto, nella misura in cui ognuno con i propri giochi ci fa quello che crede, e trae l’esperienza e la soddisfazione che vuole: per certi versi, il fatto che si possa trovare un senso personale a un’opera anche dopo averne goduto solo parzialmente è uno dei pregi del nostro medium. Per questo stesso motivo, però, continuo a non pensare che la longevità di per sé possa essere un elemento di valutazione dal punto di vista critico, perché al netto delle ore di gioco, un’esperienza può essere soddisfacente anche in pochi minuti: ad esempio, mi viene da pensare alla sequenza del diner di Fahrenheit, che vale da sola il prezzo di un gioco non memorabile, o a una “partita” di The Stanley Parable.

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Ho utilizzato la parola prezzo non a caso, perché spesso e volentieri si tira in ballo il famigerato rapporto qualità/prezzo insieme alla longevità. Per quanto rispetti e capisca perfettamente il discorso della protezione del proprio investimento in termini di ore impiegate e sia convinto fermamente che all’interno di una recensione l’indicazione del monte ore possa essere un’informazione utile per indicare a un lettore anche la quantità di tempo che è necessario dedicare mediamente a un prodotto, il fatto che la maggior parte delle persone non finisca i giochi mi fa pensare che piuttosto che della longevità, dovremmo preoccuparci molto di più della densità dell’esperienza, e che forse le quattro ore di un Firewatch “valgano” molto, ma molto di più di un dozziliardo di ore passate a vagare per le strade di un open world qualunque. Per proseguire parzialmente la metafora calcistica con cui ho aperto, sono convinto che spesso e volentieri, pur di garantire un monte ore di gioco “sufficiente”, alcuni giochi abbiano la tendenza a trasformarsi in gabbie, e completarli diventi un po’ la partita della vita in Fuga per la Vittoria: per quanto una rovesciata di Pelé sia pur sempre bellissima, siamo sicuri che ne valga la pena?

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