In medias res

in medias res editoriale

Ricordo distintamente quando, fra la fine degli anni ’90 e l’inizio dei 2000, una delle robe che faceva più esplodere il cervello fossero le intro dei videogiochi. Le sequenze iniziali dove praticamente non si toccava mai il pad, complice spesso una resa grafica superiore a quella del titolo in sé, rappresentavano il rituale di passaggio tra il mondo reale e quello diegetico. In un’epoca in cui non si viveva della sovraesposizione mediatica fatta di video, trailer e featurette, alla fine era un modo per rendere reale tutto l’hype fatto di immaginazione, parole e qualche immagine gelosamente custodite nel corso dei mesi. In un medium generalmente ancora più dipendente in termini di linguaggio di quanto non lo sia ora, il concetto di “sigla iniziale” era una prassi confortevole.

Di giochi che iniziano bene ce ne sono tanti, ma ho sempre apprezzato di più quelli in cui venivo chiamato in causa quanto prima. Al di là dell’intro in sé, il fatto di essere catapultato senza troppi fronzoli in un mondo altro, il dovermi porre delle domande e il vivere anche la fase di tutorial con il cuore palpitante e non alla mercé di qualcuno che ti dice in continuazione “ben fatto!”, ha sempre destato in me uno stupore ben più grande. Insomma, la sensazione di quei giochi che prima di ingranare di devono fare lo spiegone mi ha sempre un po’ fatto sentire il ragazzino catechizzato dal genitore, con gli amici fuori dalla porta che lo chiamano per giocare a pallone. Per questo motivo credo che alcuni titoli sono impossibili da dimenticare, perché intercorre un lasso di tempo davvero irrisorio tra il momento in cui ti siedi comodo a gustarti l’incipit e quello in cui sei totalmente immerso nel mondo di gioco. Impossibile dimenticare la scena del treno di Final Fantasy VII che, cielo stellato d’atmosfera a parte, in poco più di sessanta secondi ti getta nella mischia di un’azione sovversiva, o, ancora il “Wake up Mr. Freeman” di Half-Life 2, le tre parole con cui Valve ha sostanzialmente dato definitiva dignità al concetto di storytelling interattivo.

Entrare nei mondi di gioco senza spiegoni sulle spalle è come andare in biciletta senza rotelle per la prima volta, quando devi porti il problema dell’equilibrio

Nel corso del tempo, da Uncharted 2 a BioShock, le sequenze introduttive giocate, per fortuna, si sono moltiplicate, ma è ultimamente che sto notando una nuova e sempre più costante attenzione a rompere gli indugi in maniera quasi traumatica, meno accomodante possibile. Certo, i casi migliori da questo punto di vista sono le avventure narrative, ma mi rendo conto che rappresentano il genere perfetto per cominciare in medias res, visto che non hanno quasi mai la necessità di introdurre dolcemente il giocatore: un po’ perché la narrazione – attraverso le sue azioni – è il dispositivo principale con cui il gioco acquisisce e produce senso, un po’ perché non c’è mai la necessità di dover spiegare cose, tanto più i comandi basilari dell’interazione. Eppure, l’inizio folgorante di What Remains of Edith Finch è una roba che ti resta dentro, non tanto perché sia qualcosa di memorabile in termini di sceneggiatura o staging, ma perché se al momento non fa altro che farti fare settantacinque domande su quello che stai per vivere, col senno di poi ti ha praticamente detto tutto, e sarebbe bastato muovere meglio la visuale per darsi già tre o quattro risposte significative.

Analogamente, in questi giorni sto giocando a un titolo la cui recensione arriverà la settimana prossima, che grazie al suo inizio assolutamente privo di contestualizzazione narrativa e linee di dialogo, mi ha praticamente stregato. Il lasciare a me la scoperta sul chi sono, sul perché e sui come, mi ha messo su una scimmia enorme. È che entrare così nei mondi di gioco, totalmente privi di indicazioni (che poi arrivano, perché quello succede sempre) e senza il peso di uno spiegone a priori sulle spalle, è un po’ come andare in bicicletta senza rotelle per la prima volta e dover necessariamente porsi il problema della ricerca di un equilibrio. Nondimeno, è un bellissimo atto di fiducia dei game designer nei confronti dei giocatori, per quello che, probabilmente, potrebbe (e dovrebbe?) essere la base di un rinnovato patto di sospensione di incredulità, dove a rendere saldissimo il legame non sono le parole o i video ben girati, ma soltanto l’incontro tra due vettori creativi.

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