Non leggere i commenti!

Non leggere i commenti!

C’è una battuta un po’ amara che a volte uno fa o riceve quando scrive, soprattutto sul web: “Non leggere i commenti”, ti dicono. È un’esagerazione, chiaramente, però è anche vero che spesso le discussioni vanno in malora in tempo tre secondi e succede spesso anche che, se i commenti sono tramite i social, in realtà a essere discusso, più che l’articolo è il titolo, l’immagine di copertina o il lancio del pezzo.

Eppure, trovo che i commenti siano sempre interessanti, anche quando sono fuori luogo o offensivi. Se sei uno passionale (o se dentro ciò che scrivi ci metti un po’ di te) la cosa può infastidire, però è anche vero che fa parte del gioco, e offendersi o prendersela per uno o più commenti negativi è sbagliato, anche quando manca l’educazione. Detto ciò, mi piace leggere le discussioni, perché danno il quadro della situazione di chi legge, e, nel nostro caso, di chi gioca. È utile per scoprire non solo cosa pensa il target di riferimento, ma in generale dove si muove il pubblico, perché è evidente che ci sia uno scostamento tra noi che viviamo immersi in una “filter bubble” fatta di connessioni sempre attive verso un determinato mondo (composto da noi, colleghi di altre testate e tutto quello che produce l’industry) e i destinatari del nostro messaggio, che possono placidamente vivere a diversi gradi di separazione.

In questo senso, mi pare chiaro che questo tipo divisione in popolazioni diverse ci sia anche nel pubblico, ed è esemplare il fatto che ci si arrocchi costantemente in posizioni profondamente polarizzate, fortificate da ciò che si reputa giusto, necessario, utile, e quasi mai negoziabile. Viviamo un periodo storico interessante, perché è come se ci fossimo finalmente stancati dal cercare di definire il videogioco come oggetto in sé. Solo perché abbiamo scoperto che ci si può scornare sul suo valore come prodotto di intrattenimento e, di conseguenza, allargando il campo di battaglia, la “critica” diventa parte integrante della nuova discussione, in merito al suo ruolo, e alla natura del suo lavoro.

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Siamo in un processo di trasformazione del mezzo e della sua percezione che ci porterà altrove, verso diversi modelli di fruizione

Al di là dei discorsi più o meno interessanti (ma spesso sterili, perché fondamentalmente difficili da affrontare all’interno del sistema stesso) sulla sostenibilità del modello della critica, mi colpisce la percezione praticamente binaria del suo ruolo: da un lato c’è chi ci vede come i censori del divertimento, quelli che insomma, devono essere in grado di stare con il bilancino e dirti come spendere i soldi, mentre dall’altro c’è chi ci eleva a strumento di divulgazione culturale (o un orpello inutile di fandonie, nella versione rant). Queste due posizioni, apparentemente, sembrano inconciliabili, e mi viene da pensare che riflettono un po’ il momento storico del videogioco, un passatempo profondamente radicato nello sviluppo tecnologico, strettamente dipendente dalla tecnica di sviluppo e che esercita parte della sua fascinazione proprio grazie ai suoi aspetti quantificabili. Contemporaneamente, però – e sarebbe miope non accettarlo o considerarlo – il videogioco è oramai fenomeno culturale sotto diversi punti di vista, e nel momento in cui qualcosa diventa cultura, allora messaggio, estetica, tecnica e funzione iniziano ad andare di pari passo, perché costituiscono un’unica entità, difficilmente valutabile secondo criteri meramente quantitativi.

In mezzo, ovviamente, ci siamo noi, ma anche un po’ voi, nella misura in cui siamo in un processo di trasformazione del mezzo e della sua percezione che ci porterà altrove, verso diversi modelli di fruizione. Questo vuol dire che gli strumenti a nostra disposizione, prima o poi, saranno inadeguati, e dovremo abituarci a guardare tutto da nuove prospettive. Siamo chiaramente in un momento in cui, così come i giochi, anche la critica sta cambiando; anzi, oserei dire che si sta formando, per cui è naturale la nascita di correnti, di scuole di pensiero, e anche di eccessi in un senso o nell’altro, perché mai come oggi c’è bisogno di creare un nuovo linguaggio, adatto al medium che cambia. Questo non vuol dire che dobbiamo dire addio alla logica preview/recensione/opinione cui siamo abituati da anni a questa parte, ma che allo stesso modo servono e devono diventare pane quotidiano gli sguardi parziali, specifici, che siano quelli femministi, quelli lgbt, quelli politici, quelli puramente sociologici e quelli spiccatamente letterari – purché scritti con cognizione di causa e con delle basi strutturate, si intende – perché il senso non è creare fortini inaccessibili, ma trasformare in sapere umanistico, democratico e pertanto discutibile qualcosa che, inevitabilmente, non è sempre immediatamente interpretabile.

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