Il punto interrogativo è d’obbligo, come il titolo originale, ché mica sono sicuro di essere pronto a una cosa del genere. Intanto, pur con tutto il rispetto per l’ottimo romanzo di Ernest Cline, ne va ribadita una originalità solo apparente: esistono libri di livello paragonabile o superiore che toccano argomenti molto simili, come il pazzesco Snow Crash (1995), e anche il film Avalon di Mamoru Oshii, per quanto poco conosciuto, ha sparso fascino a piene mani sullo stesso tema (un gioco VR in cui si cimenta una società intera, stringendo ai minimi termini) già all’inizio del millennio.
Ma questo non sarebbe un problema: Daniel Galouye, ad esempio, è arrivato a prevedere le simulazioni sensoriali ben prima del mio amato Philip Kindred Dick, eppure è quest’ultimo a essere considerato il messia degli inganni esistenziali della fantascienza, il che non è così bizzarro come sembra: Galouye è stato geniale in qualche occasione, tra cui la scrittura di Simulacron 3, mentre Dick si è portato dietro lo status di genio (non subito riconosciuto dalle masse, anche questo è un classico) per ogni minuto della sua vita. Difficile dire se anche Ernest Cline lo sia, ma è riuscito ad arrivare nella testa dei giovani fruitori di fantascienza con un’irruenza che non si vedeva da tempo.
Il problema, casomai, è che dal mio punto di vista Spielberg non ha più azzeccato un film fantascientifico dai tempi di E.T., il cui respiro sci-fi era già ridimensionato rispetto a Incontri Ravvicinati del Terzo Tipo (che continuai a preferire, persino a dieci anni): Minority Report non solo è un filmetto d’azione, ma è anche la rappresentazione plastica di come il regista abbia sempre guardato agli stilemi del cinema di consumo prima che alla materia prima del soggetto, in questo caso stravolto malamente, e ormai inquadri la fantascienza unicamente in questi termini. Ha insegnato a tutti come poteva essere girato un film sci-fi con stile e potenza, e poi è rimasto lì, in balia di nuovi e imberbi sceneggiatori, o di quelli vecchi impigriti come lui.
Avalon di Mamoru Oshii, per quanto poco conosciuto, ha sparso fascino a piene mani sullo stesso tema.
Lo so, sto pur sempre parlando del regista di Duel e de Lo Squalo, creatore di Indiana Jones e di uno degli “Encounter” più influenti della storia del cinema, ma bisogna pur sempre ragionare con la testa del 2017. Senza di lui, oggi, non esisterebbero alcune delle icone visive che Stranger Things ha omaggiato, ed è indubbio che registi contemporanei come Sam Raimi, Peter Jackson o Guillermo Del Toro debbano almeno parte della loro poetica al linguaggio di Spielberg, diventato ai giorni nostri “classico” come potevano esserlo, un tempo, quelli di John Ford o Frank Capra. Non mi preoccupo, dunque, del fatto che il regista di Ready Player One sia quello di Incontri Ravvicinati; mi preoccupa che sia quello di AI e Minority Report.
Non so se Player Ready One meriti di diventare un banale film per famiglie
In ultimo butto lì una questione tutta mia, superficiale perché a volte è giusto così: che siano bravi, belli, brutti o addirittura geni del cinema, non sopporto più gli americani che vivono in simbiosi col loro berrettino da baseball. Me ne rendo conto, è un limite abbastanza stupido, ma che ci posso fare?