Per qualche giorno mi sono chiesto se fosse giusto o meno scrivere questo editoriale. Non voglio mica dare l’idea di uno che si erga a scrivere cos’è giusto e cosa è sbagliato desiderare nella vita, o quali siano i progetti che meritano un remake nel 2018 (tipo che so… Shadow of the Colossus) e quelli che non lo meritano (tipo che so… Crash Bandicoot), perché significherebbe essenzialmente dire che i giochi che piacciono a me sono importanti e quelli che non mi piacciono devono essere insignificanti per chiunque. Non posso dirlo anche perché i dati di vendita del remake di Crash Bandicoot mi zittiscono, deridendomi per il cretino che sono. Poi però mi sono detto: perché non parlarne? Di qualcosa dovrò pur scrivere e, in ogni caso, questo sarebbe l’elefante nella stanza, quindi eccoci. Il mio piccolo mondo felice dei videogiochi finisce il 5 aprile 2018, alle ore 16:00, quando le testate di questo piccolo, folle universo annunciano con entusiasmo il remake di Spyro e la gente impazzisce di gioia.
Si potrebbe dire che il mio cuore aveva già sussultato in passato con l’annuncio del remake di Crash Bandicoot («Ma davvero, ma chi cavolo vuole rigiocare a Crash nel 2017?», e poi è andata come sappiamo) e soprattutto con quel galeotto annuncio del remake di Medievil (in questo caso non sono riuscito a esprimere il mio dissenso), ma Spyro è stato certamente il colpo di grazia. Prima che arriviate coi forconi, non si tratta di una valutazione del prodotto in sé: è solo che non riesco a capire perché un gioco di vent’anni fa, che di certo non è stato un araldo della rivoluzione videoludica o uno di quei titoli davvero fondamentali per il medium, abbia sollevato tutta questa esaltazione. Me lo sono chiesto sulla mia bacheca di Facebook, poi ho messo il telefono in tasca e per circa mezz’ora me ne sono dimenticato. Quando ho riacceso per leggere i commenti, incuriosito, ho capito che la gente non scherzava mica su ‘sta cosa, e che se mettessimo lo stesso impegno e fervore in una buona causa comune, forse avremmo già sconfitto la fame nel mondo. Essenzialmente, la decina di commenti che ho trovato nella discussione erano schierati su due fronti: da un lato chi all’epoca l’aveva snobbato e porta dentro un astio furente; dall’altro chi all’epoca aveva dieci anni, l’ha amato e non vede l’ora di tornare a mangiare latte e biscotti, mentre recupera gemme colorate e ascolta draghi parlare con accento bergamasco. I primi hanno mancato il punto della questione riducendo tutto a è un brutto titolo; i secondi sono stati attratti dal canto delle sirene, vittime di una nostalgia atipica per la nostra giovane età e che sta devastando il mondo dell’intrattenimento.
È come se per ricordare avessimo per forza bisogno di un feticcio da glorificare
Ciò che voglio dire – il mio punto a monte, che forse è stato frainteso – è che la questione va al di là di quanto Spyro fosse (o non fosse) un bel gioco. Possiamo asserire con assoluta certezza che non è stato un titolo che ha cambiato il medium e che non verrà ricordato nei libri di storia dei videogiochi (come invece succederà a Shadow of the Colossus, e scusate se lo tiro in ballo ancora una volta). La questione è che schiere di venticinquenni e di trentenni lo compreranno solo perché, in qualche modo, è un prodotto legato alla loro infanzia e gli ricorda un periodo felice della loro vita. Che ci sta, perché è il modo in cui oggi vendi il 90% dell’intrattenimento, ma mi ha messo addosso una grande tristezza vedere portali d’informazione flooddare notizie su notizie (annuncio, conferma, versioni, copertine, comparative, preorder aperti con tanto di referral link) e utenti gridare al miracolo e correre a prenotare la loro copia. È come se per ricordare avessimo per forza bisogno di un feticcio da glorificare. È come, insomma, se stessimo comprando la nostra capacità di non dimenticare.