Quante volte ho letto (e scritto) questa frase: “la scrittura è di buon livello in confronto a quanto siamo abituati nei videogiochi”. È un po’ il mantra di ogni recensore trovare momenti riusciti in un quadro narrativo che accende anche una piccolissima scintilla di interesse. Eppure quel “per essere un videogioco” suona sempre degradante. Come il maestro che dice alla mamma: “Suo figlio si impegna tanto, ma non ce la fa”. Proprio come l’insegnante, anche io mi sento una persona orribile nell’insultare la creatura. Perché dovete comprendere che, prima ancora che un redattore, sono un giocatore che ha deciso di investire un certo numero di ore del suo tempo libero ad analizzare un titolo per il piacere di farlo. Prima dei soldi e dell’ego c’è la passione: se la insulti, stai implicitamente offendendo anche te stesso. Detto questo, bisogna ammettere che quella frase lì è più vera che mai.
L’ultima volta che mi è capitata di usarla è stato con Resident Evil 7: “I loro caratteri [quelli dei Baker n.d.r.] sono ben definiti, il che li trasforma anche un po’ in macchiette, ma restano comunque personaggi di buon livello rispetto alla scrittura a cui siamo abituati in un videogioco.” Il che essenzialmente significa che se mi fossi trovato davanti i Baker in qualsiasi altro contesto ne sarei uscito decisamente perplesso. Tutto troppo sopra le righe, specie quando si sfonda nel trash del mostro gigante che urla parolacce al protagonista. Allo stesso modo mi sarei sentito preso in giro vedendo in un film la riconciliazione tra marito e moglie che apre il gioco, l’assoluta mancanza di reazioni umane, una scena scritta in modo vergognoso senza alcun sentimento. O a leggere, nel finale, banalità come (riporto letteralmente): “chiusa una porta si apre un portone”. E la cosa non migliora quando ci si rende conto che altri modelli di riferimento sono scritti anche in modo peggiore.
“per essere un videogioco” suona sempre degradante
Potrei continuare all’infinito ma in realtà ogni esempio riportato è un colpo al cuore, perché quei titoli che ho citato li ho più o meno apprezzati tutti quanti. Questo significa che in realtà non ci interessa poi troppo di come si racconta una storia e, a monte, che forse quel “si applica ma non è proprio bravo” ha un peso diverso. Non è così umiliante o invalidante. Certo ci sono tanti esempi di narrazione funzionale e ben scritta, ma si tratta per lo più di mosche bianche, spesso snobbate perché provengono dagli abissi del mondo indipendente. Forse, quello del videogioco è un medium che manca ancora di maturità, anche se ormai, con cinquant’anni sul groppone, sarebbe ora uscisse dal tempo dell’eterna adolescenza. O forse siamo noi, i giocatori, che proprio non riusciamo a scrollarci di dosso una serie di cliché che condannano il nostro passatempo a ripetersi ciclicamente con storie, personaggi e trovate narrative che ormai funzionano sempre meno.
Mi vengono una dozzina di esempi di film - campioni al botteghino - con trame alla stregua del remake di Tomb Raider. Sono simbolo di un medium che manca di maturità?
Esistono svariati esempi di videogiochi scritti con coerenza e intelligenza (tra quelli che ho giocato, che sono una misera fetta dei giochi che meriterebbero di essere giocati). Su due piedi mi passano per la mente i vari Life is Strange, The Stanley Parable, Papers Please, Braid, Oxenfree, Sunless Sea. E senza dover andare a scavare troppo in profondità posso citare un The Witcher 3 o un Portal.
E se prendessimo gli ultimi star wars? Videogiochi e film sono tanto differenti in quanto a profondità e rispetto dello spettatore\giocatore?
Ammetto però che il numero di persone che acquistano This War of Mine sono molte meno degli spettatori di Schindler's List o Oscar drammatici vari. Ma chi ci giocherebbe se fossero perfette macchine narrative? Interazione zero per lasciare allo script il volante.