Nel mio caso, il fascino crudele delle Battle Royale non è arrivato con le atmosfere un po’ modaiole di The Hunger Games, capofila di un genere in cui i teenager sono infilati in qualsiasi contesto di fantascienza sociale, magari scopiazzando da capisaldi sci-fi (distopie orwelliane, o anche incubi tecno-esistenziali come The Cube) ma senza perdere mai di vista i bei faccini dei protagonisti. La brutalità delle Battle Royale mi ha invece travolto con l’omonimo film di Kinji Fukasaku poco dopo il 2000, tratto anch’esso da un romanzo, ma con piglio molto meno rassicurante: non che Hunger Games parlasse di gente felice, ma ciò che viene descritto nel libro di Koushun Takami corrisponde alla declinazione più pura dell’idea e delle sue conseguenze psicologiche, senza training in strutture high tech, elite sciccose o altre scopiazzate divagazioni.
Un misterioso governo di un altrettanto indefinito futuro decide di creare il Millennium Educational Reform Act, un’istituzione sadica che affronta in modo brutale (e follemente illogico) la criminalità giovanile: sulla base di un’estrazione a sorte, un’intera classe delle scuole medie superiori dovrà recarsi su un’isola per una battaglia all’ultimo sangue; se al termine dei tre giorni sarà rimasto in piedi più di un partecipante, tutti i sopravvissuti verranno immediatamente uccisi dalle microcariche nei collarini. Tutto il resto equivarrebbe a spoiler, per chi non ha ancora visto il film, al di là del fatto che i rapporti tra personaggi contano più delle descrizioni puramente sci-fi, ad esempio nel confronto tra il protagonista e il maestro interpretato da Takeshi Kitano, al solito tra le facce di marmo più espressive del pianeta.
Il fascino crudele delle Battle Royale non mi è arrivato da Hunger Games, ma dal film feroce e tagliente di Kinji Fukasaku
È dunque questa la
Battle Royale che mi sovviene istintivamente, tutte le volte (e accade spesso, ormai) che sento parlare del concept relativamente a un videogioco. In fin dei conti, esempi di questo genere esistono fin dai tempi “antichi” di
The Running Man (a sua volta tratto – molto liberamente – da un romanzo di Stephen King), con uno spirito pop apparentemente più affine ai videogiochi; solo
Battle Royale, però, possiede quell’aura da cult maledetto e senza compromessi che riesce a insinuarsi nella mia testa anche quando il gioco in questione, com’è vero per
Playerunknown’s Battlegrounds, ha una sua originalità nel trattare regole e scenario della mattanza (la riduzione dinamica dell’area di gioco, ad esempio, razionalmente crudele nonché efficacissima per il gameplay). Guardando a
DayZ come alla
mod di ArmA 3 che ha dato origine a
Playerunknown, i titoli che si dispongono su questa linea – a cavallo tra survival e pura competizione – presentano tratti comuni che possono fare tranquillamente a meno degli zombie: le ambientazioni sono apocalittiche nella loro “normalità”, intesa come fallace percezione dello scenario (distese di campagne, piccole cittadine e tenute agricole totalmente vuote, giocatori a parte), il sistema di danni è semi-realistico e l’unica regola vigente è la libertà delle regole. Non che queste siano assenti, cosa strutturalmente impossibile per un videogame, ma le alleanze più o meno temporanee, il reperimento delle risorse e le conseguenti strategie sono tutte in mano ai giocatori, contando solo la sopravvivenza di un singolo o di una piccola squadra.
Un concept persino “comodo”, nello sviluppo di un titolo multiplayer, considerata l’esilità del background e la genericità delle ambientazioni, ma che solo in un ristretto numero di casi è riuscito ad attirare (e soprattutto a tenerle strette) vere masse di videogiocatori.

Le varie Battle Royale videoludiche sembrano voler chiedere eterna pazienza agli utenti, con Accessi Anticipati che sembrano infiniti
Uno dei motivi è che le varie Battle Royale videoludiche sembrano voler chiedere eterna pazienza agli utenti, con
Accessi Anticipati che durano anni o, nei casi più estremi, sembrano addirittura destinati a non finire mai. Le ambizioni di
DayZ si stanno infrangendo su tempi di sviluppo ormai ingiustificabili, e anche
H1Z1: King of the Hill inizia a presentare una media di recensioni utenti non esattamente brillante (dispiace ancora di più, avendo parlato bene di
Daybreak Games la settimana scorsa); le magagne dipendono spesso dalla necessità di controllare tecnicamente ambientazioni molto grandi, ovvero l’elemento per cui oggi si può parlare di
Battle Royale e non di semplici
Last Man Standing, tradizionalmente legati ad action-shooter con mappe e ambizioni più contenute.
Sembra di una pasta diversa il già citato Playerunknown’s Battlegrounds, che ha fatto più passi avanti in pochi mesi (implementando i veicoli fin da subito) di quanti ne abbia fatti in quasi un lustro il famoso collega, più complesso e forse anche più affascinante, ma irrecuperabilmente in ritardo.
Quattro milioni di copie iniziano a rappresentare un traguardo molto importante, roba da far impallidire chi ha perso maldestramente il vantaggio.
Il titolo di Bluehole appare più conciso e schietto nella battaglia, non ha crafting e nemmeno MOB, si chiude in partite rapide e non permette di tornare sullo stesso server “alla ricerca di se stessi” (ovvero del precedente PG e del suo loot, cosa che ho sempre trovato affascinante), ma è anche la rappresentazione più riuscita apparsa finora di una Battle Royale. Oltretutto, visto che il fissato redazionale stavolta è Kikko, potreste anche riuscire a punire la sua spocchia da cecchino.