Ricordo che, scorticando la PlayStation, mi sparavo una cartuccia giapponese dopo l’altra. I titoli che si davano il cambio, entrando e uscendo dal lettore della console, erano quasi tutti J-RPG. Ne ho giocati una marea nel periodo che va dal 1997 al 2003: avevo una pila alta così di giochi di ruolo giapponesi da cento ore a botta, e ognuno di essi se ne stava lì, con gli occhioni da manga grandi grandi, ad aspettare di poter raccontare la loro storia di formazione, d’amore e di lotta al potere. Non c’erano solo i Final Fantasy, ma un mucchio di altri titoli più o meno conosciuti: Suikoden, Grandia, Wild Arms, Guardian Crusade, Legend of Dragoon e tanti che col tempo ho dimenticato. Si può dire che, con qualche piccola eccezione (i titoli imprescindibili come Resident Evil, Silent Hill, Metal Gear…), il mio percorso di giocatore è nato con i J-RPG. Sono stati la base da cui sono partito e il pavimento su cui ancora oggi, ogni tanto, cammino. Gli altri videogiochi erano comunque tutti giapponesi: storie dalla personalità fortissima, con stereotipi grandi come meloni, certo, ma sempre dotati di un particolare, di una intuizione che li rendeva unici.
Anni dopo, quando andavo per la ventina, mi resi conto che tolleravo poco i dialoghi fortemente retorici dei J-RPG, anche perché gli stessi facevano una fatica boia a rinnovarsi. Dopo innumerevoli storie di ragazzini pronti a salvare il mondo, non ne potevo più. Io e i J-RPG ci siamo separati senza grandi drammi. Poi, non so perché, c’è stato questo passaggio a Occidente e tutti i giochi giapponesi sono diventati sempre più rari.
Se adesso mi guardo indietro e cerco di individuare quali giochi giapponesi ho provato negli ultimi mesi, e magari faccio un piccolo sforzo allungandomi fino all’anno scorso, vedo Metal Gear Solid V e Dark Souls 3. Uno è il punto di arrivo di un percorso tribolato che ha devastato una produzione, l’altro è una mosca bianca, forse una delle poche serie nipponiche dal successo inspiegabile. Dico inspiegabile non perché Dark Souls non si meriti tutto questo pubblico, ma perché fa parte di un filone di titoli di nicchia che ha beneficiato di chissà quale miracolo, che lo ha trasformato nell’oggetto del desiderio masochistico di milioni di giocatori.
E poi? Niente.
Dov’è finito il videogioco giapponese? Mi rendo conto che il discorso possa favorire la genesi di tanti ragionamenti più o meno corretti che sarebbe il caso di approfondire in speciali più mirati (e non è da escludere che lo farò in futuro), ma qual è stato il fenomeno che li ha visti diradarsi sempre più come i capelli sulla testa di un uomo affetto da alopecia? Il pubblico ha cambiato i suoi gusti? Il videogioco occidentale è più facilmente digeribile e arriva, già masticato, pronto per essere ingurgitato senza sforzo? I tempi di produzione orientali sono incompatibili con i ritmi del mercato attuale?
Io credo fortemente che tutti e tre i punti abbiano una certa fondatezza, e tanti altri aspetti del mercato che adesso non posso analizzare come si deve. Il pubblico ha cambiato i suoi gusti, avvicinando inesorabilmente il videogioco al cinema, spesso alla ricerca di un’esperienza che somigli a un action movie hollywoodiano. Parimenti, i titoli occidentali vengono ormai sfornati a velocità record, figli di una catena di montaggio che assembla stilemi già conosciuti, dando forma a risultati che sono continui deja-vu. Un senso di già visto ben attento a non superare mai la soglia del tollerabile, ma che anzi striscia tra le maglie delle difese mentali del giocatore, rassicurandolo a proposito del fatto che schemi di comando e obiettivi di sfida sono stati già appresi in precedenza. Per questi standard il gioco giapponese è troppo chiacchierone, troppo difficile, troppo impegnativo e sopra le righe.
Se adesso mi guardo indietro e cerco di individuare quali giochi giapponesi ho provato negli ultimi mesi, vedo solo Metal Gear Solid V e Dark Souls 3.
Eppure, quando mi guardo indietro e penso agli esempi di videogiochi che in questa generazione mi hanno fatto sognare vedo Silent Hills P.T., una demo che è diventata un genere; vedo The Evil Within, bistrattato dai più ma saldamente ancorato al mio cuore come l’evoluzione diretta dei Resident Evil; vedo Metal Gear Solid V, che è per ora il gioco più bello per il sottoscritto in questi anni di “nuova generazione”.
In questi giorni impugno il pad per giocare a Odin Sphere Leifthrasir, il remake dell’omonimo titolo uscito su PlayStation, un giapponesissimo picchiaduro a scorrimento che ha un’anima da J-RPG. Adoro lo stile di gioco ma stringo i denti nelle lunghe cutscene che spezzano i livelli. Stringo i denti, ma prima o poi cederò e premerò il tasto per saltarle, ne sono certo. Allo stesso tempo ho allungato un occhio curioso verso tutte queste produzioni nipponiche di NIS, Atlus e Vanillaware che passano inosservate ai radar occupati a captare ben altri titoli. Uno strano desiderio feticistico mi spinge a desiderarli tutti quanti, anche se poi odierò le asperità di quei sistemi a volte vetusti. Nei prossimi mesi terrò un profilo basso e pregherò per Final Fantasy XV, anche se ho un brutto presentimento che mi afferra alla gola quando ci penso. Pregherò che quando Kingdom Hearts 3 avrà una faccia presentabile io non sarò diventato troppo vecchio e troppo stanco per amarlo. Pregherò, soprattutto, che non siano i giochi giapponesi a chiedersi che fine abbia fatto il bambino che quindici anni fa li amava incondizionatamente.