Confessioni di un recensore di FPS

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Si avvicina la stagione degli FPS bellici, e ancora una volta dovrò entrare nella mente e nei nervi di un altro uomo. Un giocatore che non si fa guidare ciecamente dalla sua passione per ARPG, shooter tattici o survival fatti bene, perché altrimenti renderebbe un pessimo servizio a chi ancora gode di un genere più semplice e comunque tradizionale. In fondo, è quasi una questione statistica: in mezzo a milioni e milioni di acquirenti, è sicuro che anche fra i lettori di TGM “si nascondano” (non commentano nemmeno le recensioni, forse per paura di essere fustigati dal resto del forum) giocatori di Call of Duty, ed è a loro che rispettosamente mi rivolgo quando scrivo la disamina dell’ultimo rampollo della serie – o della campagna in singolo di qualche celebre imitatore – tenendo a mente che mangiano grossomodo lo stesso piatto da quasi 15 anni e, appunto, sembrano ancora felici di mangiarlo. Cucinarlo non è poi così semplice, però, ed è lì che vanno ricercate le differenze.

Renderei un pessimo servizio a chi ancora gode del genere, se andassi dietro strettamente alle mie preferenze

Anni fa, quando il fardello toccava ad altri, avrei fatto meno fatica: agli inizi del millennio mi appassionai parecchio a Medal of Honor: Allied Assault e Call of Duty, alla loro potenza di livello cinematografico tradotta in prima persona, e gradii pure i colpi nello stomaco un po’ furbetti dei primi due Modern Warfare, l’impressionante rappresentazione di un’esplosione atomica all’orizzonte, e ancora meglio la truce genialità della missione all’aeroporto di Mosca. Dopo così tanti anni, però, in cui mi sono sorbito le discutibili imitazioni degli storymode di Battlefield, le prestazioni non esattamente memorabili di Infinity Ward senza West e Zampella, e ancora i timidi ritorni di Medal of Honor, confesso di essere un pochino stanco. Stanco non di passarmi quelle sei o sette ore sparacchiando il libertà (senza contare il multiplayer), ma di dover scendere a giudizio prendendo in considerazione i gusti e le esigenze di qualcun altro, quasi si trattasse di una regola deontologica auto-costruita. Eppure, anche oggi, credo sia l’unica cosa sensata da fare.

UN BLACK OPS NON FA PRIMAVERA

La pensavo nello stesso modo anche quando, nel 2012, ho recensito Call of Duty: Black Ops 2, e con sorpresa l’ho trovato un ottimo titolo anche al di fuori del genere di riferimento.

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Black Ops II presentava una trama non lineare, come unico esperimento di questo genere nell’intera serie

Rispettare i canoni degli FPS a progressione lineare vuol dire anche questo: le sparatorie non saranno mai credibili ma devono rispettare una certa precisione arcade, e soprattutto la trama dovrebbe sempre saper rapire il giocatore, ed è anzi tra le pieghe di soggetto e sceneggiatura che si può lavorare per migliorarne notevolmente il sapore. Il secondo capitolo dello spin-off di Treyarch presentava tocchi inediti anche nello schema di gioco dello storymode, con ritrovamenti di armi e piccoli compiti annessi, ma era soprattutto nel primo e unico esperimento di trama non lineare della serie, nel tratteggio dei personaggi e nelle rievocazioni storiche esagerate ma gustose che, prima ancora di lanciare il multiplayer, Black Ops II sapeva dare il meglio di sé.

Ed è così che le vicende di Mason, Woods e dell’eccellente villain Memendez (con la voce di Giancarlo Giannini, nella localizzazione italiana) mi sono rimaste piacevolmente nella memoria: stanno lì nel loro posticino, a debita distanza da Geralt di Rivia, dal Marchiato di S.T.A.L.K.E.R. e da altri ricordi che mi hanno emozionato per altre e più nobili ragioni, ma anche loro conservano una dignità ben definita, un motivo importante per cui non devono vergognarsi di quel che sono. Purtroppo, lo slancio di Black Ops II non si è più verificato: persino la serie laterale di Treyarch è tornata su un registro perfettamente lineare, senza l’ormai classico intrecciarsi di linee temporali, e gli avversari di Call of Duty non hanno nemmeno provato a fare qualcosa di meglio, mettendo la sceneggiatura in mano al corrispettivo videoludico dei “professionisti” di Boris. Qualcuno si ricorda il finale di Battlefield 4? Ecco.

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Sulla carta, le qualità di Jason West e Vince Zampella potrebbero fare bene alla nuova modalità storia di Titanfall 2

Ovviamente spero che la materia prima in mano a Infinity Ward, DICE e Respawn Entertainment si dimostri abbastanza buona da ispirare a dovere gli sceneggiatori, in modo da farci passare un autunno FPS un po’ meno scontato. Personalmente sono meno attirato dalla fantascienza spaziale di Call of Duty: Infinite Warfare, per paura che mi venga presentato un quadro deforme del mio genere preferito, e anche sullo storymode di Battlefield 1 non riesco ad alimentare troppo i sentimenti di fiducia, non per il soggetto in sé – al contrario affascinante, nel trattare la Prima Guerra Mondiale con piglio quasi “dieselpunk” – ma per la scarsa caratura delle prestazioni precedenti. Sulla carta, invece, le qualità di Jason West e Vince Zampella potrebbero fare molto bene alla nuova modalità storia di Titanfall 2, peraltro spalleggiata dall’enorme patrimonio di serie intorno a robottoni e affini. Non ci voglio credere troppo, però, un po’ perché le storie di mech giganti escono molto meglio nel luogo dove sono nate, tra autori di manga e anime del Sol Levante, un po’ perché, banalmente, in caso di risultato sopra la media non voglio rovinarmi l’effetto sorpresa.

STA SINZA PENSIER

Sul piano del multiplayer, infine, il discorso diventerebbe sicuramente più tecnico, ma con un motivo di fondo tutto sommato simile: c’è davvero stato un momento in cui Call of Duty o anche Battlefield sono stati qualcosa di più di un massacro collettivo, e anzi hanno messo i nervi al servizio della tattica? Se c’è stato, io non me ne sono accorto. Certo, è possibile affermare che le vaste mappe e i mezzi rendano maggiore il bisogno di coordinamento negli FPS di DICE, ma a mio modo di vedere non è il caso di pretendere finezze balistiche o simulative da titoli che, rispettivamente, permettono a chiunque di salire su un qualsiasi carro armato o aereo, o di funestare la vita dei più cauti lanciandosi dalle finestre con akimbo di mitragliette. L’offerta di base deve divertire senza far penare sotto il profilo tecnico, con il miglior impatto visivo possibile e il giusto grado di sfida; se poi arriveranno altre e inattese varianti dai titoli dei prossimi mesi, beh, allora vorrà dire che premieremo il relativo comparto come non facciamo da un po’ di tempo a questa parte.

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I veterani di FPS bellici dovrebbero rivolgere la propria attenzione anche a Rising Storm 2: Vietnam

Peraltro, i giochi per i più esigenti esistono eccome: anche senza scomodare l’immutata grandezza di ARMA, o il sempiterno Counter-Strike, la versione attuale di Rainbow Six Siege è senz’altro degna degli appassionati di shooting tattico, nonostante le recensioni non possano che sottolineare un inizio non proprio eccelso; soprattutto, i veterani di FPS bellici dovrebbero rivolgere la propria attenzione all’uscita di Rising Storm 2: Vietnam, all’inizio del 2017, giusto perché Tripwire (nelle vesti di publisher, ma garante della qualità) ha sempre dimostrato di saper coniugare il divertimento multiplayer a un sano tocco simulativo. E no, chiaramente non sto parlando di Killing Floor, ma della onorabile serie di Red Orchestra. Quelli sì che sono shooter bellici fatti come si deve.

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