Ier l’altro, una persona che mi sta molto a cuore mi ha domandato quale significato avessero i videogiochi, e se questi non fossero altro che fumo, pura inconsistenza. A fronte di altre priorità, non capiva perché dedicassi il mio tempo – reale – a un’attività le cui ricompense sono prettamente virtuali. Il dibattito è annoso, ne sono consapevole, la “soluzione” del quesito tutt’altro che semplice, soprattutto se si considera che la questione è stata posta da una mente che lotta quotidianamente con gli assalti dell’età, nel tentativo di mantenere salda la propria razionalità e produrre domande coerenti.
La risposta, istintiva, è stata di tipo associativo: di primo acchito ho paragonato i videogiochi al cinema, e questo perché ho ancora negli occhi e nella mente alcune bellissime sequenze di The Witcher 3. Semplificando ai massimi livelli, ho affermato che vi sono videogiochi paragonabili a certi, pessimi B-movie, e che – in quanto tali – andrebbero “interrotti” dopo le prime ore di gioco; altri – d’azione – risultano “leggeri” ed equiparabili alle pellicole anni ’80 con le loro icone ipertrofiche e le coloratissime esplosioni. Mi sono poi accalorato affermando che, tuttavia, esistono videogiochi in grado di far riflettere o di stimolare ilarità; altri, addirittura, capaci di suscitare il pianto o di muovere altri e più profondi sentimenti, come i migliori film. Dopotutto, cos’altro si può chiedere a un medium? Inutile dirlo, lo scetticismo (quella bestia stolida!) dell’interlocutore è rimasto fermo e orgoglioso; il suo sguardo sembrava dirmi: “Stai buttando via il tuo tempo”. Ancora, come cercare di far capire il “verbo videoludico” a un non iniziato?
Come cercare di far capire il “verbo videoludico” a un non iniziato?
Nondimeno, non è la qualità a definire il medium, non vi sono generi più “nobili” di altri (come si potrebbe pensare, per esempio, delle avventure grafiche, sempre all’avanguardia per quanto concerne l’aspetto narrativo e molto spesso evolute in termini di gameplay), né ha una qualche rilevanza l’ammiccamento che la nostra forma di intrattenimento preferito spesso manifesta nei confronti dei meccanismi e dell’iconografia di altre forme di espressione. È prendere in mano il mouse o il joypad che marca la linea: inserire un input da tastiera, risolvere un enigma particolarmente ostico, equipaggiare una corazza +3, dare un nome all’avatar, compiere una scelta difficile dinanzi a un dragone che sanguina acqua, entrare con la propria astronave nella Cittadella… sono tutte azioni “concrete” che ci trasportano nel mondo fatto di pixel. Nel compiere materialmente queste azioni risiede la differenza che passa tra criticare un let’s play di The Wolf Among Us, perché “Che schifo i QTE!”, e muovere Bigby in prima persona nell’opera interattiva di Telltale Games scoprendo che è bello essere il Lupo Cattivo. In genere, chi critica non ha mai neppure provato. Se solo sperimentasse, ne sono convinto, che siano belli o brutti a ciascuno giocherà.