A volte mi stupisco di come io sia ondivago e soggetto a emozionarmi nuovamente e improvvisamente per qualcosa appartenente al passato. Titoli che ho lasciato lì per mesi (quando non addirittura per anni) tornano in un amen al centro del mio giocare per diletto, ovvero quando posso dedicare del tempo ai videogiochi al di fuori delle mere logiche lavorative. Per dire, è bastato un mezzo articolo di Stefano Talarico su Doomfist e sui cambiamenti che sono avvenuti in quel di Overwatch nell’ultimo periodo per riaccendere in me la scimmia, tanto da spingermi a riprendere confidenza con lo sparatutto di Blizzard ben un anno dopo averlo abbandonato, successivamente alla fine dei lavori per la pubblicazione della recensione. Da allora il ritocco di cesello dello sviluppatore sul pargoletto è stato importante, tanto da concedermi il piacere di scoprire un feeling inaspettato con Ana, un personaggio che avrei elevato fin da subito a mio preferito, se avesse fatto parte del roster di partenza.
Potrei elencare parecchi titoli che mi hanno riconquistato per mezza parola letta, e non credo di essere l’unico videogiocatore che ha corde emotive così sensibili e facili da toccare. Se, ad esempio, sbirciassi all’interno della redazione di The Games Machine, non potrei non citare istantaneamente il caso di Destiny, abbandonato da Claudio Todeschini poco dopo il lancio, fino a quando Marco Tassani non lo ha fatto suo e non ha cominciato a giocare assieme a me una sera sì e l’altra pure. Lo stesso vale per il sottoscritto, nel senso che ho mollato e ripreso più volte il titolo di Bungie; tuttavia, nel mio caso è stato il ritmo di uscita dei DLC a dettare i tempi, mentre ciò di cui voglio parlare oggi è il classico “ritorno di fiamma”, quel fatto che riaccende l’interesse perché qualche amico ne ha parlato o ne ha condiviso immagini o video in giro per i social, come una scintilla capace di riattivare un neurone sopito. O perché succede e basta, e vai a sapere perché.
ciò di cui voglio parlare oggi è il classico “ritorno di fiamma”
La grandezza di un videogioco, da questo punto di vista, può essere misurata anche da quanto ti faccia sentire a casa dopo tanto tempo, a prescindere dalla complessità o dalla semplicità delle sue dinamiche. Al di là dei titoli già citati poco sopra, Dark Souls 3 è un esempio lampante: il figliolo di FromSoftware è sicuramente difficile da padroneggiare; una volta assimilati i meccanismi, però, girare per le sue terre diventa un po’ come andare in bicicletta… difficile dimenticarsi di come si fa! Quando qualche mese fa l’ho ripreso in mano (dopo averlo mollato a metà campagna parecchio tempo prima, per sopraggiunti altri impegni), un’oretta stiracchiata è stata sufficiente per riprendere a far viaggiare le dita d’istinto sul pad e a macinare backstab come se non ci fosse un domani. Anche in questo caso, la colpa del ritorno di fiamma è da imputare a un fattore esterno come il supporto a PlayStation 4 Pro: è bastato rilanciare il gioco dopo aver applicato la patch “solo per vedere come gira” per far sbocciare nuovamente l’amore e invitarmi a dedicargli nuovamente del tempo, a discapito di altro. Come dice una nota canzone, certi amori non finiscono, fanno dei giri immensi e poi ritornano: un fatto che vale nella vita, come nei videogiochi.