La salute degli zombie

zombieC’erano una volta gli zombie. Il tono favolistico è paradossalmente appropriato, riferendosi a una specie di Cenerentola dell’entertainment: coperti di abiti cenciosi e anonimi, interpretati da figuranti e privi di una personalità individuale, i morti viventi di George Romero hanno avuto un impatto a dir poco enorme sull’immaginario collettivo, capace di arrivare fino a noi nella forma di centinaia (migliaia?) di opere appartenenti a qualsiasi medium espressivo. Oggi, però, che l’invenzione ha attraversato con diverse variazioni cinquant’anni di storia, è lecito domandarsi se gli zombie abbiano mantenuto la stessa potenza metaforica e possano, così, proseguire in un cammino parimenti proficuo. Un cammino a varie velocità, per la precisione, in linea con i cambiamenti di una civiltà che hanno saputo rappresentare a più riprese.

Non a caso mi sono espresso come se non esistesse alcun precedente, almeno a livello di pura percezione: il nome “zombie” deriva dal folklore haitiano, ad indicare i non morti resuscitati dagli stregoni vudù, ma l’interpretazione cinematografica li ha trasformati in creature di origine virale (il virus proveniva forse dallo spazio, nei dettagli volutamente scarsi dell’iniziale trilogia) che si nutrono di carne umana e si spostano per puro riflesso, spesso verso i luoghi e le abitudini che gli sono stati più familiari. Per molti versi hanno magistralmente rappresentato la fine del “sogno americano”, e così di una civiltà che ha finito per consumare se stessa, schiava dei riti consumistici e non più governata da una cosciente direzione culturale. Romero ha poi perseverato nel desiderio di rendere gli zombie protagonisti delle sue storie, mettendo maggiormente in evidenza l’ispirazione a Io sono Leggenda di Richard Matheson. Gli uomini sono destinati a venir sommersi dalla loro immagine deformata, per quanto orrida, violenta e intellettualmente cieca essa sia.
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Per Romero gli zombie erano la rappresentazione di una società che ha finito per dissipare se stessa, ormai schiava dei riti consumistici

Ancora oggi godo fortemente nell’analizzare la nascita e la diffusione dei morti viventi nell’industria dell’intrattenimento, ma sono anche cosciente della trasformazione subita nel corso dei decenni, fin quasi a combaciare con ciò che il concetto originale voleva combattere; i “camminatori” (o “azzannatori”, “vaganti” e altro ancora, a seconda dell’opera) hanno progressivamente perso il valore di “personaggio collettivo”, spostandosi sempre più sullo sfondo a mo’ di decorazione horror per le vicissitudini dei sopravvissuti. I racconti su questi ultimi si sono allargati tra i combattimenti e i disperati assedi, e sono a loro volta divenuti un oggetto di consumo per generazioni sempre più inconsapevoli dello spirito originale. Nel frattempo non sono mancati i colpi di genio, come quello di Danny Boyle che ha reso gli infetti velocissimi (non a caso, come le fulminee doti della società telematica) e non per forza legati a una canonica morte; anche questi, tuttavia, sono rientrati nei binari delle produzioni commerciali con velocità altrettanto straordinaria.

Una simile visione è cattiva, forse troppo, persino irrispettosa delle vette raggiunte da Robert Kirkman o Max Brooks (cresciuto a colpi di sagacia, essendo figlio del regista Mel) in tempi relativamente recenti, oppure della vena ancora più fumettosamente pulp proposta da Z Nation. Allo stesso tempo, però, mi sono accorto di come la vicinanza di State of Decay 2 o Days Gone non abbia provocato in me i soliti fervori da appassionato, e che guardando a The Last of Us 2 non sia riuscito a pensare ad altro se non al destino dei protagonisti, laddove gli infetti mi appaiono come la consueta sequela di varianti lente, veloci, esplosive e/o brutalmente possenti degli zombie videoludici, per quanto connessi a un peculiare parassita fungiforme. I survival online figli di DayZ hanno addirittura imparato a farne a meno, individuando nella Battle Royale di Kinji Fukasaku o in Hunger Games i loro nuovi genitori in senso “competitivo”.

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Cinema, videogiochi e serial hanno spesso spostato gli zombie sullo sfondo, privandoli del carattere di metaforico “personaggio collettivo”

Riconosco senz’altro l’efficacia di alcune idee, come quella che muove l’incipit filmico de La ragazza che sapeva troppo, o il focus sulla disperazione paterna di Arnold Schwarzenegger in Contagious, ma non le sento sufficienti a riportare la massa di carne ciondolante verso l’esplosivo valore che ne guidò i primi passi. Non ho nemmeno dimenticato il celebre trailer del primo Dead Island, superiore al gioco stesso, a dimostrazione del fatto che in qualsiasi momento, e passando da qualsiasi canale, il dramma profondamente umano delle zombie apocalypse possa tornare a essere grande. Forse basta non sbrodolarci sopra, portando le buone intuizioni fino in fondo: dopo tutti questi anni di “consumo dell’anticonsumo”, però, è diventato difficile immaginare come e perché, specie se si osserva ostinatamente il confine tra godimento ludico (che può essere ancora copioso, su questo non ci piove) e significato delle mostruosità. Spero che qualcuno di voi riesca a trovare una parola consolatoria, magari costruttivamente lanciata verso il futuro degli zombie.

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