Il giorno di Kojima e dei muri sui social

Death Stranding

E chi se la scorda, una giornata come quella del 29 maggio? Ho avuto il piacere di passare un paio d’ore davanti al PC con una manciata di tab aperte nel browser: la prima, ça va sans dire, dedicata allo streaming del canale PlayStation, col suo tripudio di impronte di mani e copypasta in cirillico; le altre con Facebook, Twitter e qualche altra live su Twitch, giusto per ascoltare qualche impressione a caldo su ciò che, da lì a poco, sarebbe successo. Mentre smorzavo l’attesa per il reveal dell’anno, non ho potuto fare a meno di notare una cosa piuttosto interessante. La mia lista amici sui social (facendo le dovute eccezioni) era divisa grossomodo in due distinte categorie: quelli ai quali Death Stranding non interessava affatto e ci tenevano a far sapere a tutti quanto fosse stupido provare hype a riguardo, e coloro che, al contrario, morivano dalla voglia di preordinare la più costosa delle Collector’s Edition e fremevano dal bisogno di etichettare indistintamente tutti i disinteressati come barbosi finti hipster. Di per sé la cosa non mi ha stupita affatto – siamo su internet, o tiri fuori le opinioni forti o cosa ci fai ancora qui? – né tanto meno mi ha spinta ad appoggiare l’una o l’altra posizione, specialmente perché persino dopo aver visto quei nove minuti di trailer ho ancora così tante domande che ancora non mi è chiaro se possa o meno essere un gioco adatto a me. Il motivo per il quale ve ne parlo è invece legato a una sensazione ben precisa che ho provato guardando tutte queste reazioni, uno strano misto di dispiacere e ironia che mi ha investita nel momento in cui ho posato gli occhi su una dichiarazione ben precisa dello stesso Hideo Kojima.

TORNARE UNITI

«Le persone hanno costruito muri e si sono abituate a vivere in isolamento», ha scritto l’autore a ridosso della messa in onda del trailer. «Death Stranding è un tipo di action game completamente nuovo, nel quale l’obiettivo del giocatore sarà di riconnettere città isolate e una società frammentata. […] Come Sam Porter Bridges, tenterete di ricucire queste divisioni e di creare nuovi legami con altri giocatori sparsi per il mondo. Attraverso l’esperienza di gioco, spero che arriverete a capire la vera importanza di forgiare connessioni con gli altri». Dopo la sfilza di commenti sarcastici, meme, “ve lo avevo detto” e “non capite nulla di arte”, l’idea di voler connettere queste persone, così abbarbicate sul loro castello di idee e poco inclini ad ascoltare e accettare le ragioni altrui, per salvarli dal loro isolamento mi è sembrata decisamente “naive” persino per un sognatore come Kojima.

“Spero che arriverete a capire la vera importanza di forgiare connessioni con gli altri”

Kojima death stranding editorialeL’aver fatto una full immersion in discorsi che poco avevano a che fare col prodotto o con l’autore, e che si concentravano quasi esclusivamente sull’attaccare o ridere degli altri, mi ha fatto capire quanto poco il giocatore medio sia abituato a confrontarsi e discutere, ad apprezzare critiche e gusti differenti dal proprio. Nonostante un indiscutibile successo dal punto di vista della comunicazione, che ha portato Death Stranding in cima a ogni conversazione, non ho potuto fare a meno di rivalutare questi ultimi tre anni di attesa come una sorta di “fallimento” proprio di quella precisa chiave di lettura di Kojima, che sarebbe dovuta essere il vero punto di forza dell’intera opera, e persino una svolta per l’intera industria videoludica. E allora mi chiedo: prima ancora che a far riflettere, piangere, incavolare o persino vomitare, riuscirà Death Stranding a trasformarsi davvero in un mezzo di connessione e di abbattimento di muri, o finirà per essere la solita opera “controversa”, che si ama o si odia quasi per partito preso?

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