Mi permetto di riprendere questa news di Kotaku – indirettamente connessa alla serie Silent Hill – perché è riuscita a riaprire in me una specie di voragine. Anzi, a ben vedere ha aperto due solchi altrettanto profondi, il primo dei quali puramente cinematografico: Jacob’s Ladder, attualmente (e legalmente, dalla stessa Paramount, purtroppo con lock regionale) in versione completa su YouTube, è stato uno dei miei horror preferiti nella patinata decade degli anni ’80, diretto da un regista che ha espresso il suo massimo potenziale proprio qui, lontano dal plateale successo di 9 Settimane e Mezzo. Adrian Lyne è uno dei tanti videomaker che proprio in quella decade hanno iniziato a trasferirsi dal mondo delle clip e delle pubblicità a quello più nobile della Settima Arte, con un percorso che certo non ha interessato ogni autore della nostra epoca ma, allo stesso tempo, ha finito per influenzare il taglio veloce e il colpo d’immagine se non di tutto, almeno di una parte considerevole del moderno cinema di largo consumo.
mi sono accorto che Silent Hill mi manca tantissimo
Ed è qui che è venuta fuori la seconda voragine emozionale, con un veloce ma potentissimo rimbalzo. Dopo i ricordi appena descritti, destati dalla memoria a lungo termine con un lampo accecante, mi sono accorto che Silent Hill mi manca tantissimo. Per anni ho aspettato horror-game ancora più cattivi, arrivati infine con i titoli di Frictional Games, oppure con opere indipendenti basate su simili prerogative, come la totale vulnerabilità del giocatore, le apparizioni improvvise e la rigorosa soggettiva; ora, però, mi piacerebbe ritrovare le studiatissime suggestioni e il più strutturato sistema di azione di un certo modo di fare survival horror, del quale Silent Hill e la serie Siren (più aderente alla terrorizzante scuola d’orrore giapponese, quella di The Ring e The Grudge) hanno rappresentato probabilmente la massima espressione. Qualcosa che ha a che fare solo nominalmente, e per alcune logiche di gameplay, con il mondo di Resident Evil: nei primi capitoli di Silent Hill, e a suo modo anche in Homecoming, galleggia la pura follia dei creativi che li hanno realizzati, in un processo di cumulazione astratta che si nutre anche di armi e scarse risorse, ma ha nella natura e nell’originalità delle creature il punto nodale per travolgere il giocatore. E se è vero che Silent Hills di Kojima sembrava destinato a unire il vecchio e il nuovo, e a non compiere il mezzo passo falso di Shinji Mikami con The Evil Within, in questo momento avrei voglia di visioni concepite con il giusto contributo dei visual designer, di qualcuno che riprenda lo scettro di Lane, Clive Barker o Toyama e me lo ributti in faccia.
E, badate bene, stavolta non si tratta di aver “solo” paura. Al contrario, proprio in questi giorni sto saggiando con Oculus e HTC Vive le nuove frontiere dell’orrore “live”, uno stato di ansia così profondo da umiliare persino uno come me, che da sempre ama questo tipo di esperienze e ne cerca costantemente di più paurose. Non si tratta di questo, e anzi i rischi di infarto sono all’ordine del giorno: paradossalmente, dopo aver gioito di mille fughe davanti alle mostruosità, voglio tornare a confrontarmi con loro. Persino Frictional Games ha raggiunto con SOMA lo status di capolavoro e, per farlo, ha messo in evidenza tutto quel che sta intorno all’idea centrale, il fatto che lo spavento può anche essere accompagnato da un altissimo livello di scrittura, oltre che da una struttura ludica più densa e definita. E io dico che può anche starci un’infermiera priva di occhi o un malato di mente che agita la testa in un angolo; qualcosa che è in bella vista, certo, ma risulta così disturbante da non doversi nemmeno avvicinare. Va abbattuto prima.
Felice di sbagliarmi però.