Lessico e grammatica sono, rispettivamente, l’insieme delle parole e delle regole che ne determinano l’uso appropriato in una lingua. La sintassi, invece, codifica la costruzione delle proposizioni e del periodo che queste vanno a formare. I videogiochi – come ogni medium, gruppo o contesto sociale, social network o qualsivoglia attività degli esseri viventi tutti – possiedono le proprie parole, una loro grammatica precipua e una sintassi inequivocabile. Certo, per noi che ci siamo assuefatti è difficile accorgercene, ma basta sedersi accanto a un bambino che per la prima volta nella sua vita prende in mano un controller e questo insieme normativo si manifesta in tutta la sua pervicacia. Non so voi, ma io ho iniziato con uno stick analogico che roteava su se stesso, facendo muovere verticalmente una barretta bianca su campo nero, e già allora si potevano delineare le regole di cui sopra: parole sotto forma di pixel bianchi, lessico nella misura in cui questi pixel interagivano tra loro e una sintassi identificabile nel non farsi sfuggire quella dannata pallina ma, anzi, farla rimbalzare fuori dallo schermo avversario.
Oggi, a quasi quarantanni di distanza, i videogiochi sono diventati qualcosa di inimmaginabile per il tempo, e noi li abbiamo seguiti generazione dopo generazione, assorbendone i cambiamenti quasi senza sentirne il contraccolpo. Giusto l’avvento della terza dimensione ci ha messo alla prova, visto che abbiamo dovuto imparare a muoverci in uno spazio dalle regole differenti, con meccaniche più elaborate e un’incognita legata alla telecamera che riprendeva l’azione da un’angolazione ancora sconosciuta. Ma chi se lo ricorda più, oramai? Con queste premesse, osservare un bambino di 8/9 anni che impara a orientarsi in un mondo come quello di Abzû è stupefacente. Laddove noi vedremmo una strada chiara verso il nostro obiettivo, magari perché la sabbia lungo quel corridoio è più chiara che in altri punti, lui scorge soltanto la difformità di colore; al cospetto di una porta chiusa con due catene che le escono dai lati, noi intuiamo subito che a monte deve esserci qualche meccanismo da sbloccare, mentre lui la osserva al pari degli altri elementi decorativi dell’ambiente; quando il controller smette di funzionare perché è partita una scena di intermezzo, noi alziamo pollici e indici, al contrario lui si gira chiedendoti di intervenire visto che il joypad non risponde più. Ahimè, questo processo di apprendimento è velocissimo, e già dopo alcuni giorni si può osservare il bambino sbucare da un pozzo e andare a cercare l’avvallamento nel muretto di cinta che gli permetterà di salire, oppure bypassare un hotpoint perché già attivato in una run precedente, o ancora cavalcare un delfino per guidarlo a saltare insieme agli altri fuori dall’acqua, rituffandosi non prima di aver eseguito una piroetta. Lessico, grammatica e sintassi vengono assorbiti così come si impara a prendere il cucchiaino dal cassetto in cucina per mangiarsi lo yogurt: senza accorgersene. Per altro, immagino che nessuno di noi si ricordi di quando non sapeva cosa fosse uno yogurt e che per cibarsene senza sbrodolare servisse uno strumento a cucchiaio rinvenibile solo ed esclusivamente in quel cassetto lì.
Sborserei quattrini per trovarmi nuovamente vergine di RPG, mentre inserisco il DVD di Baldur’s Gate II
E ora, prima di lasciarvi scatenare con l’amarcod, una riflessione agrodolce che credo abbiate già fatto quasi tutti: da un certo punto di vista, io sborserei volentieri dei quattrini sonanti per trovarmi nuovamente vergine di RPG, mentre inserisco il DVD di Baldur’s Gate II o per non aver mai giocato un FPS ed essere catapultato sulla spiaggia di Omaha Beach in Medal of Honor: Allied Assault; dall’altro, però, penso che forse avrei dovuto filare di più le mie coetanee e uscire la sera (con loro), invece che stare sveglio fino alle 3 del mattino a trastullarmi con mouse e tastiera… quindi cosa dite, facciamo che siamo pari?