Qualche settimana fa stavo mostrando a una cara amica l’ultimo mio capriccio in fatto di stealth game: ovvero, Hitman: Absolution, di IO Interactive (c’è chi ostenta la collezione di farfalle…). Io ne ero chiaramente entusiasta, la mia amica un po’ meno tanto vero che, dopo appena mezz’ora, mi dice: «Non mi piace. Dai disinstallalo, che facciamo qualcosa di più divertente». Per me “qualcosa di più divertente” significa un altro videogioco, nondimeno non volevo cedere e, insistendo per rimanere sul titolo in questione, le ho chiesto spiegazioni: il gioco mi pareva invero assai spassoso e colorato, con quell’uso sfacciato dell’HDR – già visto simile in TES IV: Oblivion – che faceva sbrilluccicare ogni superficie, compresa la maestosa pelata dell’Agente 47.
Al momento del gran rifiuto, stavo calcando i lindi campi da tennis prospicienti la villa di Diana Burnwood, obiettivo di missione. Con la corda di pianoforte stretta nella mano guantata avevo appena realizzato il mio primo “ace”, strangolando silenziosamente la guardia piazzata a presidio della terra battuta. «Ecco,» dice la mia amica, «vedi come è tutto troppo concreto? I dettagli, il modo in cui la vittima tiene la testa reclinata, gli occhi sbarrati privi di vita (seppur virtuale, aggiungo io). Non mi piace questo realismo, il primo piano sulla violenza». Dal canto mio, ho cercato di farle capire che la violenza nel gioco in questione era funzionale allo svolgersi della trama, al modus operandi del protagonista – che, beh, è un assassino – e che contribuiva a creare una sorta di gradevole atmosfera pregna di humor nero.
Mi sono anestetizzato alle crude immagini presentate nei videogiochi?
Se mi fossi posto queste domande anni fa, probabilmente, avrei tessuto le lodi di un’era felice, di Monkey Island e delle avventure LucasArts. Colore e goliardia, dunque. Tuttavia, non siamo più in quell’epoca: la saga dello Strigo, per esempio, di violenza ne dispensa in abbondanza, tra occhi cavati, persone impalate mostrate con una nitidezza disturbante (povera, povera Keira Metz) e avversari fatti a fettine, letteralmente. Chiaramente, uno dei principali motivi per cui i dettagli truculenti sono stati inclusi nel medium è legato alla volontà degli sviluppatori di mostrare i muscoli del motore grafico. Val la pena citare a tal proposito Jedi Knight II: Jedi Outcast, dove il buon Kyle Kataran è in grado di mozzare gli arti degli stormtrooper con la fida spada laser: un evento accompagnato da un innegabile fattore di coolness, giacché vuole essere un chiaro omaggio/riferimento a L’Impero colpisce ancora e – attenzione spoiler! – alla mano mozzata di Luke Skywalker. L’evoluzione grafica, in questo senso, ha portato all’esplosione delle teste dei supermutanti in Fallout 3, con occhi che schizzano insanguinati verso la telecamera, e frammenti di osso e budella che rimbalzano sull’asfalto scheggiato di marciapiedi post-apocalittici. Ma tutto questo è davvero necessario? Non dovremmo essere turbati da siffatta profusione di immagini violente?
mi capita, in molti videogiochi, di desiderare un’opzione violenta, anche quando non presente
Todd Howard, durante la conferenza di presentazione del titolo succitato tenutasi all’E3 del 2008, sostiene che la violenza sia dannatamente divertente, e infatti il produttore esecutivo di Bethesda vanta la presenza in-game della perk “bloody mess”, caratteristica della serie, e di armi in grado di far sì che le persone muoiano in un modo esageratamente violento tanto da risultare ridicolo. Non solo, in seguito all’uccisione particolarmente cruenta di un bandito, Todd commenta che “la cosa non stanca mai”, il tutto mentre la radio installata nel Pip-Boy da polso dispensa le liete note di Yankee Doodle. Dunque, la violenza è veicolo per lo spasso secondo il medium, mentre è seducente, liberatoria e appagante per il giocatore, che infatti tende a distruggere tutto, o quasi, sin dai tempi di Space Invaders! Violenza che si fissa tanto più agevolmente sulla retina quanto i dettagli sanno essere raccapriccianti. Da qui alle immagini cruente dello Strigo è un attimo, e l’accrescere dei dettagli non rende certo la cosa meno “divertente”.
E pure, sostenere che la violenza sia solo divertimento – per il medium e i giocatori, parimenti – sarebbe ingeneroso. La serie di Myst, nata con l’esplicito compito di farci sollevare il dito dal pulsante di fuoco, vuole raccontare ai margini di bruciacervella raffinatissimi la vicenda di una famiglia atipica e per far questo non lesina immagini disturbanti scaturite dalla pazzia della prole insana di Atrus. In particolare, le stanze di Achenar presenti nelle varie ere sono un pot-pourri di ossa; ambienti che arrivano a comprendere una sala delle torture, che pure con la grafica vetusta dell’epoca fa ancor oggi il suo discreto effetto. Né potremmo immaginare la serie Metro senza i suoi dettagli raccapriccianti che contribuiscono, insieme al ritratto di un’umanità inscatolata nei claustrofobici dedali della sotterranea, a veicolare un mondo particolarmente ostile punteggiato da persone che non ce l’hanno fatta, viste attraverso la lente di una maschera antigas che è sovente incrinata e imbrattata di sangue. La violenza, dunque, per raccontare l’ambiente, per farci immergere nel mondo di gioco.
la violenza è veicolo per lo spasso, secondo il medium
“Violence”, cantavano i Pet Shop Boys nel lontano 1986, “Violence, breeds”: la violenza si riproduce, e oramai ha “piacevolmente” invaso il medium e condizionato le nostre abitudini videoludiche.