L'anacronismo inaccettabile di The Last Guardian

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Questa non è una recensione. Non ho ancora finito il terzo lavoro di Fumito Ueda e nutro per la sua creatività una profonda stima. Ho amato ICO e Shadow of the Colossus, ho atteso The Last Guardian per quasi dieci anni, come immagino abbiano fatto molti di voi, e quando ho inserito il Blu-ray nella console avevo l’hype a mille. Mi sono ben guardato dal leggere alcunché prima di poterlo provare personalmente, cosa che ho fatto la sera giusta, con tutto il tempo e il silenzio necessari a immergermi nell’atmosfera tipica della “serie”, senza distrazioni o pensieri. Beh: mi sono annoiato a morte.

Quando su Twitter mi sono azzardato a scrivere che in tre sere su tre alle prese con Trico e il suo piccolo amico umano ho dovuto combattere contro il sonno, mi sono sentito dare della “brutta persona senza cuore”. Inaccettabile, come giudizio, specie in virtù del fatto che ho giocato più volte entrambi i suoi predecessori, tanto su PS2 quanto su PS3, di cui custodisco con gelosia tutte le versioni retail. Il cuore, quindi, ce l’ho già lasciato in abbondanza. Il fatto è che nei 12 anni trascorsi tra la pubblicazione di Shadow of the Colossus e The Last Guardian le cose sono cambiate tanto. Certo, in primis mi sono evoluto io come homo ludens, ma è proprio la tipologia di intrattenimento proposta dal medium a essere maturata. Ahimè l’orizzonte in cui si muove questa “ottava arte” è impietoso, perché se nel cinema la differenza tra gli effetti speciali di Guerre Stellari (1977) e Gli ultimi Jedi (2017) non impedisce di godere di entrambe le produzioni senza alzare troppo il sopracciglio, o in letteratura Il Conte di Montecristo (1844) sarà appassionante anche il prossimo secolo, nell’ambito del gaming le infrastrutture di gioco hanno la capacità di invecchiare molto velocemente.

Adesso non tiratemi fuori la storia che tutti amano il retrogaming: SNES Mini C64 Mini sono operazioni commerciali che testimoniano solo che noi vecchietti siamo nostalgici, e giocare su emulatori è paragonabile alle rassegne cinematografiche sul regista Fritz Lang. Chiaramente, ciò non toglie che alcuni possano divertirsi come se non ci fosse un domani, ma appunto lo fanno con pubblicazioni di fine ‘900. The Last Guardian è uscito lo scorso dicembre, su piattaforma in commercio… e non è un remake. I suoi continui ritardi e la sua lavorazione contorta sono sintomi di un progetto nato già stanco su PS3 e, con tutta probabilità, portato alla luce giusto perché Sony non poteva evitare di averlo a catalogo, vista la venerazione della community sonara per la figura di Ueda. Però mettiamo da parte le questioni di politica commerciale o di feedback soggettivo e concentriamoci sul gameplay.

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I continui ritardi di The Last Guardian e la sua lavorazione contorta sono sintomi di un progetto nato già stanco su PS3

Al netto dell’ottima realizzazione di Trico (il coprotagonista controllato dall’IA che sembra davvero vivere di vita propria, tanto nell’indipendenza del comportamento quanto nelle reazioni alle nostre azioni), il moveset del personaggio che controlliamo è farraginoso: orientarsi durante un salto è difficile, si cammina con una lentezza immotivata, l’arrampicarsi sul dorso dell’animale è casuale e la telecamera è buttata lì a caso. Non si tratta di curve di apprendimento o di meccaniche pensate ad hoc, come poteva essere per Wander e i colossi che doveva abbattere. Chiunque abbia scalato uno di quei giganti sa bene quanto fosse matematico il raggiungimento dei punti critici da colpire, così come fosse funzionale per Ico quel tenere per mano Yorda e doverla tirare da una parte all’altra. In The Last Guardian non c’è ragione alcuna per chiedere al giocatore di imprecare nella fase platforming, e – come molti altri prima di me hanno osservato – sembra quasi di essere davanti a un prototipo addirittura antecedente ai due titoli testé citati. In altre parole, è fatto così male che sembra di essere su PS One agli albori del 3D.

In questo discorso poco importa che l’atmosfera che si respira nelle varie location sia evocativa e che la relazione tra uomo e animale maturi con una dolcezza che non ha eguali in altri videogiochi, perché per arrivare a goderne bisogna accettare di prendere in mano un controller che diventa nostro nemico, lasciandoci in balìa di un fegato spappolato che nemmeno Vasco Rossi quando viveva a Zocca. Il parallelo corretto per inquadrare il problema è quello del cult Deadly Premonition di Red Star Games su console nel 2010: trama del migliore Twin Peaks ma un gameplay fatto di continue sparatorie senza senso, tra personaggi ingessati dalla testa ai piedi, come lunghissimo intermezzo tra una stringa di testo e l’altra. Il gioco valeva la candela? Secondo me no, ma i gusti son gusti ed è bello così – stercorario anyone?

Tornando a monte, oggi come oggi non è più accettabile chiedere al giocatore di sorbirsi una porzione di gameplay noiosa perché sviluppata male, promettendogli però di vivere emozioni significative in un secondo momento. Come scriveva Ron Gilbert qualche giorno fa, i game designer dovrebbero prendere l’abitudine di realizzare il primo livello per ultimo, un po’ perché se catturi l’utente fin dalle prime battute poi è più facile che lo stesso chiuda gli occhi davanti a qualche imperfezione, e un po’ perché sembra proprio che ai titoli di coda ci arrivi sempre meno gente, a volte nemmeno chi recensisce il prodotto finale, quindi può essere che gli orrori delle prime fasi del progetto non siano notate nell’immediato. A ogni modo, immagino che siate in tanti ad aver completato The Last Guardian, quindi fatemi sapere come lo avete giudicato voi, che come me lo avete aspettato per quasi due lustri.

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