Il pozzo delle memorie analogiche

Il pozzo delle memorie analogiche

Non accade raramente che il buon Todeschini, correggendo i miei pezzi su TGM, si trovi costretto a controllare una volta di più i nomi propri di persone o cose, alla ricerca di lettere perdute e piccole sviste del genere. La struttura alquanto imperfetta del mio cervello ha sicuramente un peso in tutto ciò, ma amo darmi anche un’altra spiegazione, furbescamente auto-assolutoria ma non insincera: almeno in parte, avendo vissuto per decenni nell’era dell’analogico, la mia mente tende ancora a fidarsi dei ricordi accumulati prima e dopo l’avvento del digitale, e dunque a ignorare motori di ricerca, archivi o articoli specializzati che mi sarebbero facilmente di aiuto. Può anche essere che il buon Kikko mi sbugiardi subito, ma ho avuto l’impressione che sui pezzi online gli stessi errori occorrano meno (coff coff… ndKikko), forse perché il dover compilare la pagina su browser rende la fruizione delle informazioni dalla rete ancora più naturale, in particolare quelle piccole e insidiose come i nomi o le date.

Questo non è un banale piagnisteo, se non altro perché i due esimi caporedattori appena nominati sono più giovani del sottoscritto (ma non hanno il cervello altrettanto in pappa). È solo che, ammirando per l’ennesima volta le sequenze finali di Blade Runner, mi è venuto in mente un dilemma che non sono mai riuscito a risolvere, fra le poche occasioni in cui il digitale non è venuto in aiuto all’analogico: anni fa, come citazione da inserire in un dossier sulla rivista, ricordavo di aver letto informazioni sugli interni dell’appartamento di J.F. Sebastian, diverse dalla solita nozione del Bradbury Building e acquisite, probabilmente, in una delle riviste di cui mi nutrivo negli anni ’80 e ’90.analogico

Ammirando per l’ennesima volta le sequenze finali di Blade Runner, mi è venuto in mente un dilemma che non sono mai riuscito a risolvere

La questione era troppo precisa per scomodare un ricordo difettoso, pur non avendo a conforto nemmeno un nome: se l’esterno e le scale del grande spazio centrale appartengono sicuramente al Bradbury Building, e basta uno sguardo per sincerarsene, l’articolo in questione sosteneva che le scene interne sarebbero state girate nella casa parigina di un facoltoso pittore, amico di Scott, senza tuttavia ultimarle a causa dell’esagerato caos provocato dalla troupe. Inizialmente ero convinto di arrivare al bandolo della matassa in un paio di ricerche, anche perché l’attenzione per il capolavoro di Scott è addirittura cresciuta col tam tam digitale: niente da fare, di quella nozione non sembra essere rimasta traccia, per quanto l’abbia cercata e ricercata; nessuna delle location riportate da IMDb si riferiscono a quella scena, esterni a parte, mentre qui, ad esempio, si fa riferimento allo stesso set di Warner dove è stata girata la sequenza del bar di Taffy Lewis, il mellifluo datore di lavoro di Zhora. Gli stili déco dei luoghi coincidono in gran parte, seppur non in tutte le inquadradure (la caccia ululante di Roy Batty, ad esempio, nei passaggi interni), ma non riesco comunque a esserne sicuro. Quel giornalista dell’era analogica, magari per una svista o una pazzesca invenzione, mi ha regalato un dubbio di cui non mi libererò mai.

In altre occasioni, al contrario, sono riuscito a “ripristinare” memorie che pensavo definitivamente perdute, almeno nella mia piccola e personale esperienza. Fino a qualche anno fa, ad esempio, avevo l’ossessione di un film visto da bambino, intorno a sei o sette anni, con una scena finale che mi è rimasta impressa per sempre: la fuga di un equipaggio da un pianeta extraterrestre, in mezzo a rocce e vapori malsani, in cui uno degli astronauti rinveniva quasi per caso un manufatto scolpito, evidentemente il volto di una donna aliena. Sentivo che c’era qualcosa di straordinario in quell’atmosfera: avevo come l’impressione che non appartenesse a una pellicola qualsiasi, tra la miriade di film trasmessi dalle televisioni private italiani negli anni ’80, senza troppa attenzione ai diritti d’autore (una vera normativa arrivò più tardi).analogico

In certe occasioni sono riuscito a ripristinare memorie che pensavo definitivamente perdute

Anche stavolta sembrava non esserci speranza, nonostante l’apertura globale delle informazioni di internet, finché non mi è venuto il dubbio che potesse trattarsi di cinematografia russa, quasi come invito a quella profondità che, anni dopo, avrei ritrovato nelle pellicole sci-fi di Andrej Tarkovsky: si trattava, in effetti, di un classico del cinema di fantascienza del periodo sovietico, Planeta Bur di Pavel Klushantsev, successivamente “sembrato” senza troppi problemi per utilizzarne le sequenze in filmetti commerciali del furbissimo Roger Corman, tra cui l’improbabile Voyage to the Planet of Prehistoric Women. Non ricordo le parole chiave che propiziarono il miracolo, anche perché le infinite ricerche su uno dei dettagli cruciali, quello del volto scolpito, mi avevano sempre portato a post o articoli inerenti Marte, per questioni documentarie o di pura fiction (in merito alla famosa illusione ottica sulla superficie). In questo caso, come capita a tutti noi, almeno sul versante della memoria sono diventato una sorta di cyborg, capace di completarsi solo per via digitale e destinato all’approssimazione, se non all’oblio, nel caso di un semplice black out.

Peraltro, il film è disponibile in varie forme, ormai libero da copyright, nelle reinterpretazione di Corman come nella versione rititolata Planet of Storms in Gran Bretagna, ed è ancora godibilissima la sua raffinata palette cromatica, le inquadrature quasi pittoriche, più importanti di una trama ormai ingenua, seppur evocativa. Su quel particolare dettaglio di Blade Runner, invece, corro il rischio di non uscirne più, tanto che potrei iniziare a pensare di essere un Replicante.

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