I sobborghi americani, un’estate degli anni ’90 rivista con gli occhi di vent’anni dopo, l’amicizia adolescenziale. Don’t Nod ormai è veterana di questo tipo di racconti e in Lost Records: Bloom & Rage cerca di rimescolare un po’ le carte e giocare fortissimo sulla nostalgia. Ci riesce a metà.
Sviluppatore / Publisher: Don’t Nod / Don’t Nod Prezzo: 33,99 Euro Localizzazione: Testi Multiplayer: Assente PEGI: 16 Disponibile Su: PC (Steam), PlayStation 5, Xbox Series X/S Data di lancio: 18 febbraio 2025
Cosa c’è di più agrodolce del ricordo delle estati della gioventù? Estati che sembrano uscite da un film, piene di prime volte, promesse fatte sotto cieli rosa, e ferite che non fanno più male ma lasciano il segno. Lost Records: Bloom & Rage cerca di catturare quel misto di nostalgia e rimpianto che appartiene a una generazione cresciuta tra nastri VHS, CD masterizzati e pomeriggi troppo lunghi da riempire. E lo fa con l’inconfondibile mano di Don’t Nod, tra ambientazioni evocative e personaggi che sembrano nati per finire su un diario di liceo. Peccato che sotto quella superficie lucida e curatissima, ci sia un gioco che non ha molto da dire, o – soprattutto – da far fare.
Il gioco è ambientato nella cittadina fittizia di Silent Falls, provincia americana molto classica, un po’ Stephen King e un po’ Stranger Thing (che poi è sempre una copia di King). Una di quelle località in cui tutto sembra tranquillo, ma basta scavare un po’ per far venire a galla misteri terrificanti. Anche se in realtà qui di misteri da far venire a galla non sembra esserci granché. A Silent Falls quattro adolescenti – Swann, Nora, Autumn e Kat – vivono un’estate cruciale per la loro crescita e non solo, nel 1995. Qualcosa succede, qualcosa di importante e traumatico, che le dividerà, e il gioco ce lo dice fin dal primo minuto cercando di creare una tensione.
A Silent Falls quattro adolescenti vivono un’estate cruciale per la loro crescita e non solo, nel 1995
It senza Pennywise
Se sul piano dell’estetica e del mood Lost Records colpisce nel segno, la scrittura a risultare non convince. Il gioco sembra voler raccontare una storia che abbiamo già sentito tante volte, e in più lo fa senza un reale guizzo. L’impianto narrativo è ai limiti del plagio di IT di Stephen King – un gruppo di amici segnato da un evento accaduto in gioventù, il ritorno nella città natale, i ricordi che riaffiorano – ma privato di qualsiasi tensione o elemento disturbante. Non c’è un “mostro”, né metaforico né reale, anche se sembra costantemente che debba saltare fuori. Il fatto che poi non succeda mai nulla di pauroso sa un po’ di coito interrotto. Ci si muove in un limbo tra dramma adolescenziale e mystery soft, senza che nessuno dei due elementi prenda davvero il sopravvento. Il risultato è una narrazione che arranca, che si prende molto tempo per dire cose tutto sommato banali e che finisce per diluire l’impatto emotivo in una struttura episodica che, almeno in questo primo capitolo, fatica a decollare.
Tutto sommato però il comparto narrativo non brilla particolarmente ma comunque funziona. Il gameplay è decisamente il punto debole dell’esperienza. Il fulcro interattivo di Lost Records ruota attorno alla videocamera: le protagoniste, nel passato, riprendono oggetti, ambienti e situazioni per costruire una sorta di diario visivo. L’idea non è nuova e sembra anzi mutuata da Season: A Letter to the Future, gioco che faceva dell’osservazione e della documentazione il suo cuore pulsante. Ma dove Season lasciava ampio spazio alla contemplazione, al vuoto tra un momento significativo e l’altro, e poneva maggiore enfasi sulla personalizzazione del diario, Lost Records riempie ogni singolo secondo con stimoli, icone, interazioni.
Ogni area esplorabile è costellata di oggetti da filmare, quasi come se gli sviluppatori temessero di annoiare lasciando troppi silenzi
Ogni area esplorabile è costellata di oggetti da filmare, quasi come se gli sviluppatori temessero di annoiare lasciando troppi silenzi, una sorta di horror vacui. Il paradosso è che l’effetto finale è proprio quello: si finisce per annoiarsi, ci si sente ingabbiati in una routine in cui si passa più tempo a cercare cose da riprendere che a vivere davvero la storia. Le sezioni esplorative diventano raccolte di collezionabili “mascherati”, e il senso di scoperta lascia presto il posto a una certa pesantezza. L’interazione è minima, spesso ridotta al semplice spostarsi da un punto all’altro per attivare una scena o un ricordo. Le scelte di dialogo, quando ci sono, hanno poco peso e sono messe lì più per caratterizzare che per influenzare davvero gli eventi. Non che ci si aspettasse un gameplay profondo o meccaniche complesse – non è questo il tipo di gioco – ma almeno un coinvolgimento maggiore, un senso di partecipazione più attivo alla vicenda, sì.
Un’estate (in)dimenticabile
A salvare Lost Records dalla mediocrità ci pensano, ancora una volta, l’atmosfera e il contesto. Per chi è cresciuto negli anni ’90 è difficile non lasciarsi trascinare dalla cura con cui vengono ricostruiti oggetti, ambienti, abitudini. Le camminate nei boschi con la colonna sonora giusta, le stanze tappezzate di poster, i walkman, le console CRT: tutto concorre a creare un effetto madeleine che colpisce dritto allo stomaco. Anche la rappresentazione delle dinamiche tra adolescenti, seppur già ampiamente vista, ha dei momenti di autenticità.
Un’esperienza più intima, meno teatrale, ma anche meno incisiva
Non manca qualche tocco di paranormale, com’è tradizione della casa, ma qui viene trattato con più discrezione e meno enfasi rispetto a Life is Strange. Il risultato è un’esperienza più intima, meno teatrale, ma anche meno incisiva. Sembra mancare sempre qualcosa, una spinta, un rischio in più. E questo è un problema, soprattutto quando si punta tutto su empatia e coinvolgimento emotivo. E poi anche basta cercare di replicare (il successo economico di) Life is Strange.
Questo primo episodio di Bloom & Rage sembra più un prologo allungato che un capitolo uno. Getta le basi per qualcosa di più grande, apparentemente, ma lo fa con un passo incerto, alternando momenti toccanti a lunghe fasi di noia. È difficile, dopo qualche ora, non pensare a quanto più efficace sia stato Jusant, l’altro recente esperimento di Don’t Nod, che con praticamente solo testo e un gameplay essenziale riusciva a trasmettere molto di più e in modo molto meno banale. Qui invece ci si perde tra l’intento di ricreare gli anni ‘90 per suscitare la nostalgia dei trenta-quarantenni di oggi e la voglia di rifare ancora una volta Life is Strange. Il risultato è un racconto estremamente già visto, per quanto impacchettato bene, con un gameplay del tutto anonimo e forse fuori tempo massimo.
In Breve: Lost Records: Bloom & Rage ha cuore, stile e nostalgia da vendere, ma inciampa su una struttura ludica debole e una storia che non riesce a trovare una propria voce. È un gioco che parla del tempo, ma non sa gestirlo; che cerca la profondità, ma resta in superficie. Forse il secondo episodio saprà far decollare la trama, qui quasi una grossa introduzione a un piccolo twist finale. Il gameplay difficilmente aggiungerà qualcosa a questo pigro mix.
Piattaforma di Prova: Xbox Series X
Com’è, Come gira: Gira molto bene, nella nostra prova non abbiamo riscontrato nessun problema, né di frame rate né di bug rilevanti.