Nella prima settimana dell’anno è impossibile non parlare delle proprie aspettative e delle proprie speranze per i prossimi 360 giorni, soprattutto se si viene da un 2017 tanto ricco quanto divisivo, per cui tirare in mezzo Charles Dickens e il suo romanzo di formazione ha sempre il suo perché. Non ricordo moltissimi altri periodi così intensi sia dal punto delle uscite che da quello delle critiche per questo o quell’aspetto di un prodotto. È chiaro che il frullatore dei commenti distruttivi abbia preso a girare sempre più intensamente, a causa di un mix di popolarità del mezzo (a cui non abbiamo ancora preso le misure), della rottura spesso irreparabile del patto di fiducia tra pubblico e sviluppatori (e/o produttori), della tossicità del web a livelli di molestia altissima dovuta a congiunture sociali molto eterogenee e, infine, dell’incapacità della stampa tutta di saper gestire la narrazione intorno al medium, rifugiandosi spesso nel cavalcare l’onda per necessità/opportunismo/incapacità di affrontare con efficacia critica l’attualità. Chiaramente non si può fare di tutta l’erba un fascio, ma secondo il mio modestissimo parere agli altissimi indiscutibili dell’ultimo periodo fanno da corollario dei bassi angoscianti e bui. Normale che sia così in ogni percorso di crescita repentino come quello dei videogiochi.
Siccome nessuno si augura che questa parabola di crescita si arresti, ciò che spero (un po’ romanticamente e con una punta di idealismo che in parte sarà contraddetta dalla gelida realtà) è che nel 2018 un po’ tutti – chi scrive, chi legge, chi non fa nulla di tutto ciò e pensa serenamente a giocare e basta e che forse ha pure ragione a sbattersene – si concentrino sulle storie positive di un mondo che ha necessariamente bisogno di prendere una forma in grado di assecondare le infinite sfaccettature di cui si compone. Facile, direte voi, fare la solita retorica del bene che dovrebbe vincere sul male quando in gioco ci sono interessi economici e i piccoli investimenti dei giocatori, e non c’è nulla di più vero, da questo punto di vista. Chiaro che le battaglie per un sistema più trasparente non devono fermarsi, e i consumatori hanno il diritto di continuare a premiare o meno soluzioni più o meno aggressive, ma quest’anno ci ha insegnato che lo scollamento tra chi si lamenta o si infuria (a torto o a ragione) e la realtà dei fatti è pari a quello che c’è spesso tra la critica e il pubblico generalista.
Insomma, dalla stessa parte della barricata ci sono evidentemente tre grossi player che non comunicano bene sul campo, e probabilmente sarebbe interesse di tutti iniziare a farlo, in un modo o nell’altro, ascoltandosi di più e raccontando le cose senza urlarsi in faccia, magari parlando di qualcosa che possa costruire terreno comune.
In primo luogo spero che a costruire la comunione di interessi possano essere i giochi: mai come nel 2017 i vari premi in giro per il mondo sono stati generalmente percepiti come “giusti”, e nel 2018 spero che questo percorso di riconoscimento unanime della qualità possa essere il faro guida di una narrazione intorno al medium fatta di storie interessanti e coinvolgenti. Così come il caso di Hellblade e la fantastica vicenda di Melina Juergens hanno rappresentato uno dei simboli del 2017, mi auguro un anno in cui gli underdog abbiano lo spazio che meritano grazie all’umanità della loro proposta. Non smetterò mai di credere che per quanto il videogioco sia frutto di un lavoro di squadra, per portare tutto su un altro livello ci sia bisogno di volti, vite, sensibilità personali per creare empatia, distruggere il fastidiosissimo cinico disincanto e ristabilire il patto di fiducia tra chi crea e chi utilizza un prodotto. Mi viene in mente NieR: Automata e il personalismo di Yoko Taro, capace di sopperire anche alle mancanze indubbie di un gioco che, pur proponendosi a una nicchia, si è dimostrato in grado di essere apprezzato globalmente.
E così, se dovessi puntare su qualche accoppiata gioco/volto come se fossimo all’ippodromo, ne dico tre, abbastanza facili: Josef Fares / A Way Out, cavallo pazzo di Hazelight in seno a EA che ha attirato su di sé un occhio di bue gigante ai The Game Awards e non può deluderci; Sam Barlow / WarGames, perché il creatore di Her Story al lavoro su una serie interattiva che si rifà a un classico degli anni ’80 in pieno clima revival potrà solo polarizzare il pubblico; infine, Lucas Pope / Return to Obra Dinn, perché dopo Papers, Please Pope ha deciso di alzare ulteriormente l’asticella, e abbiamo bisogno di pazzi cronici come lui. Poi certo, dall’altro lato a mettere tutti d’accordo (o no?) ci penserà Rockstar con Red Dead Redemption 2 che difficilmente darà spazio a qualcun altro, però proprio per questo sarà un anno intenso.
L’ultimo augurio che mi faccio, infine, riguarda il mercato italiano, ma non quello dei giochi, che sta seguendo il suo iter evolutivo con difficoltà ma costanza, bensì quello del pubblico. È una riflessione che nasce in maniera laterale, scorrendo la lista dei backer di uno dei tanti libri (questo, per la cronaca) sulla storia del medium finanziati su Kickstarter. Pochi italiani, quasi tutti della “solita” cricca degli addetti ai lavori. Ecco, ciò che spero è che finalmente, anche da noi, si faccia quel passo in avanti per cui la storia, la cultura, la voglia di scoperta ci spingano oltre la nostra confort zone, perché per creare un industria serve una domanda variegata e consapevole, e in questo il pubblico ha molto più potere di quanto non creda, e non parlo di espressione di pancia, ma di richiesta sul mercato e attenzione ai prodotti. Poi è vero, ci sono una barriera linguistica da sconfiggere e delle ritrosie culturali da superare; dunque, quello che forse spero è che qualche pazzo si prenda l’onere di tradurre libri come Blood, Sweat and Pixels, tutti i Bitmap Books (che poi quello sul C64 l’ha tradotto Mondadori…) o qualsiasi altra cosa, e che magicamente rientri anche della spesa. Ma qui si tratta, purtroppo, di un miracolo più che di una speranza. Buon anno!