La questione è molto più complessa rispetto al titolo, e sicuramente verrò affogato dal mare di sputi di chi ama – con mille ragioni al seguito – un certo modo di fare gaming nel Sol Levante. In questi ultimi tempi, però, mio malgrado ho dovuto affrontare l’immenso stridore fra due stili di videogiochi, quelli concepiti in Giappone da una parte e in Europa e negli USA dall’altra (e anche qui ci sarebbero mille differenze, a dire il vero, non solo con gli Stati Uniti, ma anche fra Est e Ovest europei). La “pietra dello scandalo” è stata la lunga sessione esplorativa su Monster Hunter World: poco m’importa, in questo senso, se ci sono decine di colleghi che già lo definiscono come una “nuova droga”, pronti a illustrarvi le loro imprese e idolatrare ogni dettaglio quasi fosse stilisticamente intoccabile. Magari sono gli stessi che da un paio d’anni sono risaliti sul carro del PC, dopo averne cantato lungamente la morte, e che forse lo faranno ancora quando la VR – oggi sbeffeggiata dalla gran parte della stampa italiana – avrà le carte in regola per sfondare sul serio . Mode e consuetudini di massa sono una brutta bestia, specie quando fai un lavoro come il nostro.
Entriamo ora nel merito della faccenda: l’ultimo parto di Capcom è un bellissimo titolo, complesso e sfaccettato al punto giusto, ma è anche un gioco pieno di animali buffi, faccette sorridenti inclinate e quintali di icone da imparare per qualsiasi cosa, al punto che Geralt di Rivia, se solo avesse dovuto fare lo stesso, probabilmente avrebbe optato per una vita da stallone di lusso (che pure non disdegna lo stesso, ma non divaghiamo).
Monster Hunter World è giapponese fino nel midollo, nonostante l’uso del tempo reale, e ciò può essere amato o rigettato a seconda di chi lo affronta
So che è quasi impossibile, e che faccio questo discorso più a me stesso che ad altri (meno che meno agli appassionati di JRPG, da domani davanti a casa mia con le spranghe), anche perché ho abitato per anni con un ragazzo giapponese e ho imparato, nel mio piccolo, quanto il loro modo di interfacciarsi al mondo sia diverso, quanto il diaframma delle formalità sia ben più importante rispetto al nostro, e persino quanto l’aver metabolizzato l’uso degli ideogrammi nella scrittura (dunque un linguaggio per immagini) possa incidere nella vita quotidiana e nella concezione di una qualsiasi opera. Da questo modo di essere e di vivere sono venuti fuori capolavori di ogni tipo, sotto forma di manga e anime (che riesco a far miei più facilmente, complice la continua e convinta fruizione di buona parte della mia generazione), o anche in sede letteraria e cinematografica.
Il mio è un discorso tutto personale, senza volontà di offendere nessuno
E ancora mi devono scusare i cultisti del gaming nipponico, immaginandomi in ginocchio mentre struscio le orecchie sul Tatami del tempio dello Judo, per rispetto e penitenza: tutto quel che ho sognato di fare, mentre giocavo a Monster Hunter World, è di rivivere gli stessi obiettivi e le stesse azioni senza facce allegre di contorno, con uno scopo preciso e greve, magari nel cupo contesto della serie Metro: nessuna icona a schermo, pathos che ti assale al cuore, mostri che non hanno colpa di essere mostri, ma che vanno uccisi per il bene di una comunità di disperati. Si, lo so, prima ancora che un bestemmiatore della cultura orientale, sono un uomo dall’aura pesantissima, infarcito di Fante, Bukowski, Miller, Burroughs e di tutti i loro alter ego fantascientifici. Perdonatemi, o voi che potete.
PS: Un paio di doverose precisazioni: so che è erroneo parlare di gaming nipponico come se il Giappone fosse l’unico produttore di videogiochi nel continente asiatico; allo stesso modo, l’articolo non contempla il mio amore sconfinato per tutti gli insegnamenti arrivati dall’Oriente nel genere horror, giocabili o meno.