La comunicazione “chiusa” dei videogiocatori è un male curabile

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All’università avevo il brutto vizio di frequentare lezioni di corsi che non rientravano nel mio percorso accademico. Fu così che, durante una lezione di Pedagogica della resistenza, assistetti a un esperimento sociale inscenato per far luce sui meccanismi della comunicazione e della tradizione scritta e orale. Non mi dilungo, ché non è questa la sede e poi a Ivan vanno insieme i neuroni; resta il fatto che una parte della mattina venne dedicata al gioco del “telefono senza fili”, laddove il racconto originale, un testo sacro poco noto a noi occidentali, fu completamente stravolto nel giro di una mezz’ora da studenti che avevano l’obiettivo di farlo arrivare al destinatario nella forma più coerente possibile. Nelle giornate che seguirono appresi moltissime cose riguardanti la veicolazione delle informazioni tra le persone. Tra queste c’era l’insistere della parzialità della cultura personale sull’utilizzo di alcuni periodi che possono cambiare il significante di una parola. Veniamo quindi a Monster Hunter World e al fatto che, nonostante sia in possesso di due copie fisiche di capitoli precedenti, io non ci abbia mai messo su le mani.

In questi giorni tutti ne parlano, specie chi è la prima volta che si cimenta con quel tipo di gameplay. È quindi inevitabile che sia apparso sulle bacheche di mezzo mondo ed è pacifico che, per la legge dei grandi numeri e dei sei gradi di separazione, anche mia madre abbia intravisto un post sull’argomento. Vi siete mai chiesti cosa possa pensarne una persona che vive “fuori” da questo settore? Prendete uno dei tanti quotidiani che ormai dedicano una rubrica periodica ai videogiochi e guardate chi la sfoglia sulla metro: trova mezza pagina dedicata al leviatano di Capcom e passa oltre senza leggerla. Ora: se partiamo dal presupposto che l’engagement di un lettore non videogiocatore avviene tramite internet (vuoi perché il figlio segue uno youtuber, o perché un suo amico, a 45 anni suonati come potrebbe essere Claudio, ancora ci si diverte e pubblica uno screenshot preso alle 3:00 del mattino, mentre la famiglia dorme ignara), una delle domande da farsi per capire come sdoganare il medium dall’essere “per bambini” è «Siamo capaci di fare comunicazione della nostra passione in maniera accattivante, comprensibile e accessibile anche a chi non sa cosa sia un Pukei-Pukei?». La nostra trasmissione, orale e scritta, è ancora acerba, forse figlia di un tempo in cui l’atto di chiudersi in cameretta davanti al monitor del Commodore 64 aveva un qualcosa di “non consono”. Lo scorso luglio, il nostro Marco Tassani pubblicò appunto un editoriale in cui esplicitava la difficoltà di gestire questo “senso di colpa”, per quanto non ci sarebbe nulla da nascondere o di cui vergognarsi.

Sono gli altri a non capirci, o siamo noi che non siamo in grado di farci capire?

Se da un certo punto di vista la sua posizione è comprensibile, dall’altro bisogna anche fare un esame di coscienza sulla popolazione videogiocante, per nulla esente da responsabilità. Potrei tirare in ballo la teoria della comunicazione chiusa, ma preferisco raccontare un episodio del recente lunedì. Ero a pranzo con degli amici dell’università, una decina di quarantenni più o meno affermati, per lo più ignoranti di cosa sia diventato questo settore in termini di edutainment e gamification. A ogni modo, uno di questi inizia a raccontare al vicino della sua “prima volta” con Monster Hunter World e fa: «Di certo beneficia dell’atmosfera giapponese; pensa che noia se fosse serioso!». E l’altro risponde: «Mah. Se l’ambientazione fosse a là Metro 2033 io mi divertirei di più. E poi ci sono queste 3 milioni di iconcine che…». «Quello è insostenibile! Ho una quantità di roba nella cassa delle scorte che secondo me marcirà. In questo The Division resta il top dell’UX».

Si tratta di uno scambio reale, avvenuto tra giocatori esperti che condividono un linguaggio e la sua sintassi (ne avevamo già parlato, se ricordate). Adesso fate lo sforzo mentale di mettervi nei panni di un commensale che ascolta questa conversazione e riflettete sul tipo di immagine che potrebbe trarre del gioco o la misura del suo sentirsi estraneo a quello scambio. Riportate ora tutto alla superficialità con cui si scrive sulle bacheche di Facebook, ai seni esplosivi utilizzati come immagine di apertura di troppi articoli della stampa specializzata, all’inconsistenza di innumerevoli discussioni che si limitano ad affrontare il tema caldo del momento senza fonti, per sentito dire e magari motivate da odio e preconcetti che obnubilano la capacità di giudizio, quindi domandatevi cosa penserebbe vostra madre se capitasse sul vostro profilo e vi leggesse quando scrivete di videogiochi. Capirebbe che non si tratta solo di un passatempo per bambini, oppure – guardando la collega – commenterebbe con un laconico «so’ ragazzi!»? Insomma: sono loro a non capirci, o siamo noi che non siamo in grado di farci capire?

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