Datemi, ancora oggi, il primo Fallout e farete di me un videogiocatore contento. Ho amato praticamente tutto del titolo Interplay, a partire dalla sequenza di apertura, che con le sue immagini in bianco e nero veicolava il netto contrasto tra la vita asettica e perfettina dei Vault e il regime che regolava la vita in superficie (al suono delle pistole automatiche), passando per il gameplay a turni sorretto da una delle UI più belle che abbia mai esperito, sino ad arrivare alla graffiante musica acida del genio Mark Morgan. Che dire, poi, della potente voce narrante di Ron Perlman? Sì, proprio quella che scandiva la celeberrima “War, war never changes.” e che ci ricordava che, nel 2161, la guerra veniva mossa per acquisire quelle risorse che erano anche le armi di un perpetuo conflitto… spread e Bund! No, qui la memoria, o forse la goliardia, mi gioca un brutto tiro, dacché si trattava di “petrolio e uranio”.
In ogni caso, Fallout è simbolo imperituro della post apocalisse nei videogiochi, emblema che continua a perpetuarsi grazie a Bethesda (e Obsidian, perché non dobbiamo dimenticare Fallout: New Vegas) che ne ha raccolto egregiamente il testimone portandolo nella next-gen. Ringrazierò sempre la software house di Rockville per aver reimmaginato questo mondo rétro-chic dove è possibile rosicchiare iguana-on-a-stick, mentre le pubblicità trasmesse da televisori ancora curiosamente funzionanti sponsorizzano vetture fiammanti a “soli” 199,999.99 dollari.
Non vesto il Pip-Boy al polso, ma in tasca reco lo Smartphone
Eppure, perché piacciono le apocalissi, le post-apocalissi e i titoli a sfondo distopico? Non dovrebbe turbarci un quadro così nero del domani umano? Non sarebbe meglio limitarsi ad assaporare, come negli anni ’90, l’innocente goliardia di giochi à la Monkey Island? Soprattutto – e perdonatemi se l’argomento vi sembra ingombrante se accostato al nostro “piccolo” passatempo – alla luce della situazione mondiale così simile, mi pare, ai quadri videoludici cui ho appena accennato.Ancora una volta mi scuso se tratto un tema spinoso, se qualche accostamento vi sembrerà ingeneroso o esacerbato, ma vergo questi caratteri dal cuore della zona più “rossa” della Lombardia, “segregato” in casa, fatta eccezione per l’indispensabile spesa alimentare. E nelle poche uscite che mi concedo – anzi, che mi sono concesse – osservo desolate strade, usci sbarrati, luci spente presto la notte che lasciano bigie finestre a guardarmi dall’altro ciglio della strada.
perché piacciono le apocalissi, le post-apocalissi e i titoli a sfondo distopico? Non dovrebbe turbarci un quadro così nero del domani umano?
Per le vie c’è (poca) gente che non ha voglia di ridere, di parlare, che ti saluta a malapena, che sta lontana e che veste la mascherina bianca sul volto come si porta il lutto al braccio. Certo, mancano le bande di predoni à la Mad Max o in stile Ken il Guerriero, eppure mi pare di trovarmi dentro una mia/nostra personale post-apocalisse: le bandiere verdi, bianche e rosse penzolano meste dalle finestre mentre un patriottico “dj”, verso le sei di sera, riproduce un medley omnicomprensivo che non sceglie né partito né religione, giacché spazia da Bella ciao all’Ave Maria di Schubert, passando per L’italiano di Toto Cutugno fino a culminare nell’inno nazionale. Non stiamo parlando di Inon Zur, né del già citato Mark Morgan, ma è questa la colonna sonora che ascolto quando mi reco a quello che, affettuosamente, ho ribattezzato il Super-Duper Mart di quartiere. Non ci sono edifici in rovina, ma paiono deserti, come già accennavo. Non vesto il Pip-Boy al polso, ma in tasca reco lo Smartphone. La voce di Andrew Ryan, o del presidente John Henry Eden, trova il suo equivalente negli hashtag che vengono pensati dalle “alte sfere”, e che influenzano la nostra vita, il nostro modo di riflettere.
vergo questi caratteri dal cuore della zona più “rossa” della Lombardia