il manto di old gamer che un tempo vestivo mi faceva storcere il naso di fronte a quelle opere che sacrificano il gameplay in favore della narrazione
Ho anche smesso, in tempi più recenti, il manto di old gamer che mi faceva storcere il naso di fronte a quelle opere che sacrificano il gameplay in favore di una narrazione corposa, perché quando parliamo di titoli come
Heavy Rain e
The Wolf Among Us credo che ne valga veramente la pena. In definitiva, mantenere la qualifica di old gamer significava tenermi addosso una sorta di impermeabile à la tenente Colombo, rimanere aggrappato a pixel hunting e a un modo di fare enigmi in stile
Monkey Island (originale un tempo, oggi decisamente abusato).

Nondimeno, l’apprezzamento che provo quando mi trovo a fruire titoli prettamente narrativi non spegne l’obiettività di fronte al fatto che
molti sviluppatori – esplicitamente o implicitamente – hanno in brutto vizio di “dirci” che il videogioco appartiene a loro, che non sta a noi fan decidere come fruire della loro opera (o che non dobbiamo permetterci di suggerire modifiche). Questo avviene tramite artifici di gameplay o narrativi. I videogiochi con salvataggio unico, per esempio, ci “spiegano” che occorre accettare di buon grado questa soluzione, perché è bello convivere con le proprie scelte e soprattutto errori, che è un metodo “cheap” quello in uso di “riavvolgere il tempo” sfruttando salvataggi multipli.
il finale unico rischia di scontentare una buona fetta di pubblico
E poi, naturalmente, abbiamo i titoli con un finale singolo che con la loro storia vogliono veicolare un messaggio, un punto di vista. Eppure,
senza nulla perdere, The Walking Dead stagione 2 e Life is Strange sono in grado di offrire una scelta finale che, a prescindere dalla nostra preferenza, non stravolge l’atmosfera del racconto; cupa in tutti e due i casi. E, ancora oggi, il contatore di Steam ci ricorda come la decisione finale di
LiS abbia spaccato il pubblico a metà. Un finale unico – equiparabile a quello offerto da The
Last of Us Part II, in pratica, avrebbe rischiato di scontentare il cinquanta percento del pubblico. È dunque questo l’obiettivo che si propongono gli autori quando forzano su di noi un unico sbocco narrativo?
sacrificare l’interattività al volgere del finale significa appiattire un titolo
Si legge con buona frequenza (sui social, nei forum e più in generale su internet) che un’opera, qualsiasi, appartiene solo e soltanto al suo creatore. Perché, dunque, proporla ad un pubblico? Se così fosse forse farebbe meglio a rimanere nel proverbiale cassetto o – più opportunamente – su di un hard disk. Personalmente,
credo serva a poco avere l’opportunità di pitturare di celeste la corazza del proprio avatar o la possibilità di modificare il loadout delle armi quando ci viene impedito di intervenire sul finale, la parte più importante di una storia digitale. Un videogioco non è un film, né un libro: in primo luogo, il suo tempo di fruizione è mediamente molto più lungo e richiede maggiore coinvolgimento; soprattutto, sacrificare l’interattività al volgere del finale significa appiattire un titolo alla stregua di togliergli la terza dimensione. I finali multipli esistono, e
The Witcher 2: Assassins of Kings è un ottimo esempio di quello che un videogioco story-driven deve offrire a chi lo fruisce: un finale ritagliato su misura, una scelta “vera”.
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