E dunque, Dark Souls III è arrivato, portando con sé tutta le sue solite scene di panico da day one, che coglie anche le più insospettabili persone come il nostro Astrotasso. Non sono un fan accanito dei Souls, nella misura in cui non ho la pazienza e la forza di volontà adeguata per accogliere la sfida di Miyazaki e flagellarmi lungo la strada: sono fin troppo epicureo e Dark Souls è un gioco per gli stoici.
Eppure, nel corso di questi anni ho seguito con estremo interesse la parabola dell’opera di Miyazaki, perché credo fermamente che il genio nipponico sia riuscito in un’impresa più unica che rara: entrare nella testa degli occidentali con qualcosa di profondamente orientale. È un po’ il sushi dei videogame, per certi versi più di Final Fantasy che, anzi, quando si è voluto occidentalizzare ci ha perso un bel po’. Invece no, Dark Souls e Blooborne sono filosofia orientale intrisa di tropi e temi occidentali: nelle mie fugaci e, ahimè, non assidue frequentazioni di Yarnham sono rimasto soggiogato da tutti i riferimenti più o meno espliciti a Lovecraft, ma soprattutto ho amato la sua capacità, questa tutta giapponese, di raccontare una storia muta ma estremamente profonda. Quando ho letto The Paleblood Hunt, 90 pagine di suggestive considerazioni e analisi ai riferimenti che si possono trovare durante l’avventura gotico-vittoriana, sono arrivato a una conclusione, ovviamente opinabile e personale. I giochi di Miyazaki, al di là degl’indubbi meriti dal punto di vista del gameplay, sono, al contrario di quanto pensino in molti, anche profondamente interessanti dal punto di vista narrativo e, soprattutto, quasi per nulla impliciti.
I giochi di Miyazaki sono profondamente interessanti dal punto di vista narrativo, e quasi per nulla impliciti
Non parlo, dunque, solo di qualità del lore, ma proprio di struttura narrativa: tutto è sempre sotto gli occhi del giocatore, se è sufficientemente bravo, attento, e acuto da coglierne gli elementi. Miyazaki, in maniera sicuramente ambigua e facilmente fuorviante, risolve un problema di game design importante, ovvero quello della narrazione ambientale, senza ricorrere a nessuna forma di intervento esterno. Il punto interessante di una soluzione del genere è proprio il fattore interpretativo: non è essenziale che tutti percepiscano la storia in maniera corretta, ma che tutti possano percorrerne l’iter attraverso le proprie convinzioni. Da questo punto di vista, pur attingendo in concreto dalla mitologia occidentale, filosoficamente Miyazaki resta profondamente orientale: nei Souls e in Bloodborne non si trovano motivazioni essenziali nella storia, ma bisogna necessariamente cercarle dentro di sé. Queste servono a rendere ferrea la nostra volontà in una sorta di Bushido ludico che sposta la centralità dello storytelling sull’attività del singolo. Il mondo è a nostra disposizione, prodigo di dettagli e di storie, ma non c’è nessun trigger da attivare, solo un percorso di crescita da compiere. Ecco, quello che vorrei è che un gioco “più tradizionale” adottasse lo stesso approccio di design di un Souls, magari in un contesto più canonico, in cui la lettura dell’ambiente e la sua interpretazione giocasse un ruolo fondamentale in termini di gameplay. Intanto, devo accontentarmi, ancora una volta, dell’icona di un Souls che mi guarda sul desktop, invitandomi a essere clickata… uff, se solo si potessero skippare tutte quelle battaglie…