Non so a voi, ma a me, talvolta, è capitato di essere preso per una specie di mercenario, un super esperto di armi appena tornato da qualche guerra: chiacchierando a cena o per la strada con qualche amico videogiocatore, ho proprio colto con la coda dell’occhio lo sguardo di persone con espressioni colpite, attente semplicemente all’argomento o già pronte, in qualche modo, a una sorta di giudizio sommario sulla natura violenta di chi stava parlando. Il che è bizzarro, non avendo mai preso in mano una vera arma in vita mia, per quanto la passione di mio padre per la caccia avrebbe potuto suggerirmi l’idea.
Il discorso è pericoloso in più aspetti, e va subito liberato di qualsiasi connotazione speculativa: tempi di ricarica, parabole dei proiettili sulla distanza, modelli vari di semi-automatici e tutte le cose che avventori e curiosi possono aver percepito, osservandomi sospettosi come se nascondessi una pistola dal qualche parte, fanno parte dell’enorme bagaglio di conoscenze che qualsiasi appassionato di sparatutto padroneggia, dal caso più particolare di chi conosce davvero le armi e ne ammira la tecnica (magari anche per questioni professionali), ai giocatori che si sono sempre limitati a valutarne la trasposizione sportiva in un videogioco, dove nessuno si farà mai male. Quest’ultima è l’unica cosa che conta, in tutti i casi.
Talvolta, mentre parlavo di un gunplay, sono stato scambiato per una specie di mercenario esperto di armi
La verità, al solito, è un tantino più sfaccettata: dentro ci stanno condizioni come quelle che ho provato a descrivere qui, con la contrazione in numero e varietà delle proposte ad alti livelli (specie per PC, con mouse e tastiera al centro dei pensieri degli sviluppatori), ma anche questioni apparentemente astruse come i progressi delle intelligenze artificiali nei giochi d’azione, scarsi e ormai poco sperimentali. Almeno per le esperienze a singolo giocatore, le routine di F.E.A.R. rimangono ferme nel tempo come modello eccellente ma mai più ricreato, unite all’alto grado di interattività di angusti scenari dal forte valore strategico; ancora prima, le simulazioni tattiche dei primi Rainbow Six e Ghost Recon non hanno trovato nell’esplosione commerciale dei videogiochi il giusto coronamento della loro storia, e hanno invece iniziato a contrarsi e mutare fino a rischiare di sparire; per non parlare di S.T.A.L.K.E.R., il cui modello è stato tagliuzzato e riutilizzato in mille piccole porzioni, e mai ricomposto per intero.
I primi Rainbow Six e Ghost Recon non hanno trovato nell’esplosione commerciale dei videogiochi il giusto coronamento della loro storia
In realtà, al di fuori delle produzioni più blasonate, non c’è che l’imbarazzo della scelta
Una vera voragine, infine, si aprirebbe prendendo in considerazione la tradizione di Quake e Unreal Tournament, ormai relegata a super-gourmet che se ne fregano della loro morte commerciale: Quake Live è a disposizione di chi ama i balzi temporali più integralisti; l’infinita pre-alpha del rifacimento di Unreal Tournament può ancora allettare i seguaci del gioco Epic, seppure con lentissimi progressi; il meno famoso ShootMania Storm, dal canto suo, brilla come rappresentazione più pura ed estrema dello stesso spirito competitivo, in cui il contesto fantastico serve per distillare le abilità più istintive dei giocatori. In nessun caso, tuttavia, si può parlare di nuova vita per questo modo di concepire la competizione online, complice un mutamento nei gusti e il responso dei semplici numeri. Oggi il mondo è di Overwatch e di Destiny, diversissimi ma entrambi capaci di ricamare tantissimo sul gunplay, seppure in una forma che può non piacere ai veterani di altre ere. O può assuefare in modo diverso, come nel mio caso col gioco Bungie, e farti sentire quasi in colpa per la cosa.