Come ogni anno, dopo l’abbuffata settembrina di sport virtuale (una volta entrati nel vivo di ottobre, mese quantomai ricco di uscite importanti), da bravo maniaco ossessivo di qualsiasi titolo sportivo inizio a covare hype solo e soltanto per un gioco, ovvero l’ennesimo capitolo della serie su cui ho accumulato in assoluto più minuti nella mia storia di giocatore, ovvero Football Manager. Il titolo manageriale di Sports Interactive è sicuramente uno dei miei feticci più grandi, e ogni ottobre si celebra un rituale ben preciso, composto dalla disinstallazione del capitolo precedente, con relativa pulizia della quintalata di GB investito in personalizzazioni varie, ma soprattutto un giro di letture preparatorie relative al nuovo arrivato, la cui beta dovrebbe giungere nelle prossime due settimane.
È abbastanza assodato che le squadre di calcio utilizzino Football Manager come strumento di scouting
Se quest’anno
la maggiore novità dovrebbe essere costituita dal management dello spogliatoio, ciò che più mi incuriosisce è come si evolverà il rapporto di scambio reciproco tra realtà e videogioco. Sì, perché
Football Manager rappresenta la cartina di tornasole più evidente della normalizzazione del medium sotto il profilo culturale. Certo, è un caso limite, in quanto esponente di un genere che è fatto per inseguire e simulare la realtà, e dunque è naturale che venga utilizzato dagli analisti come modello empirico in scala dei fenomeni che rappresenta, analogamente a quanto diversi city builder sono stati presi come esempio per dimostrare teorie di urbanizzazione; è altrettanto vero, tuttavia, che negli ultimi cinque o sei anni il titolo di Sports Interactive è sempre più nominato dagli addetti ai lavori in maniera esplicita. È chiaro che un ruolo importante l’ha giocato
il caso di André Villas-Boas, visto che fondamentalmente l’allenatore portoghese (attualmente allo Shangai SIPG) è
diventato un professionista anche grazie alla sua ossessione per il gioco manageriale, che gli ha permesso, negli anni in cui viveva nello stesso condominio di Bobby Robson, mentre questi era allenatore del Porto, di essere notato dal manager per i “pizzini” che gli lasciava, elaborando consigli tattici di livello notevole. Quando il Guardian pubblicò la storia era il 2011, e da quel momento in poi sono in tanti ad aver svelato il “segreto di Pulcinella” riguardo l’utilizzo di
Football Manager come strumento didattico o di scouting, da Ole-Gunnar Solskjaer ad Alex McLeish. Oggigiorno è quasi assodato che le squadre facciano largo uso del titolo di Sports Interactive, tanto che a volte alcune manovre di mercato spregiudicate di direttori sportivi all’avanguardia ti danno proprio la sensazione di essere le tipiche scommesse nate sulla base del database di gioco. D’altronde,
per stessa ammissione di Tom Markham, strategic business developer in Sports Interactive,
la software house collabora ufficialmente con diversi team, fornendo loro dati statistici rilevanti e presi direttamente dal database di gioco, costruito grazie al lavoro di 1300 scout su tutto il territorio mondiale che collaborano gomito a gomito, incrociando i dati statistici con le loro osservazioni.
Locuzioni come expected goals e data analysis sono cresciute di pari passo con la popolarità del gioco di Sports Interactive
Insomma, se
Football Manager si alimenta dalla realtà e dalla sua evoluzione, è
anche vero che a mio avviso, negli ultimi anni, il linguaggio del titolo di Sports Interactive ha influito tantissimo sul modo in cui si parla di calcio: locuzioni come expected goals e data analysis sono cresciute di pari passo con la loro centralità all’interno del titolo di Sports Interactive, e se oggi rappresentano un modo qualitativo di approcciarsi ai dati da parte di chi il calcio lo racconta quotidianamente, per i giocatori del titolo di Miles Jacobson incarnano il pane quotidiano di diverse annate sulla cresta dell’onda in qualità di manager. Questo non vuol dire che si tratta di gioco “professonializzante” e che domani posso mandare il mio CV in giro per il mondo (benché…), ma è oramai assodato che il software britannico sia parte integrante del processo di gestione di un club, e che
il mondo dei videogiochi ha chiaramente contribuito allo sviluppo dell’analisi statistica nel calcio, che è uno sport ben meno misurabile sulla base dei dati rispetto ad altre discipline. Se, infatti, la regolarità dei numeri ha reso il lavoro statistico fondamentale in sport come il baseball e ha creato indici affidabili in diverse altre discipline, il calcio resta un unicum un po’ atipico: alla gigantesca mole di numeri ottenibile oggi c’è bisogno sempre di un contraltare che simuli in qualche modo le dinamiche umane che produce quella quantità sovrumana di dati.
Football Manager è quel collante, e il suo ruolo è paragonabile a quello dei simulatori di guida utilizzati dalle scuderie motoristiche: un risultato mirabile per l’industria dei videogiochi.
Tra l’altro, il peso di Football Manager nel mondo reale diventa sempre più evidente soprattutto a causa di notizie di attualità più o meno buffe, come quella accaduta in Bolivia qualche giorno fa. Ruben Aguilar, 24 anni, esterno del Montpelleir, squadra che milita nel campionato francese, e protagonista di una grande prestazione contro il PSG, è stato convocato dalla nazionale boliviana in vista dell’ultimo turno di qualificazioni ai Mondiali. C’è un problema, però, ed è quello che Aguilar non è boliviano, ma francese. Il motivo dell’equivoco è da cercarsi proprio nel database di Football Manager, dove, per errore, l’esterno è considerato col doppio passaporto, cosa che Aguilar potrebbe anche richiedere, ma di certo non per la Bolivia, visto e considerato che le sue origini paterne sono spagnole, e non sudamericane. Un equivoco buffo, ma che dimostra ancora una volta la rilevanza di Football Manager nel panorama calcistico contemporaneo e che il mio hype, tutto sommato, è più che giustificato.